Un’inquadratura dall’alto – quasi un Dio nell’alto dei cieli – che ruba un dialogo di 12 minuti fra un padre e una figlia incentrato sulle vicende dell’Arca di Noè durante l’apocalisse. La prima sequenza di Light of my life più che il cinema ricorda alcuni pezzi di teatro indipendente, con tutta quella densità di minimalismo e intimismo che asciuga all’osso il contesto per restituirci la vividezza delle anime che lo attraversano. Forse una delle più belle scene di apertura degli ultimi anni.
Casey Affleck racconta una distopia senza stereotipi
Fin da subito Casey Affleck – one man movie che qui produce, scrive, dirige e interpreta – ci mostra dove vuole portarci (o meglio, dove non vuole portarci) ribaltandoci in un universo dove tutto è depotenziato e racchiuso, allontanandosi da tutti gli stereotipi del genere distopico. Perché in fondo la distopia c’è ed eccome: quel padre (Affleck, di cui non conosciamo nemmeno il nome) e sua figlia di undici anni Rag (Anna Pniowsky) vagano senza meta in un mondo nel quale una misteriosa pandemia ha sterminato il genere femminile. Rag è una delle poche sopravvissute all’annientamento delle donne e per questo è in costante pericolo di essere scoperta e – come si può immaginare – finire nelle mani sbagliate. Ma in un mondo di soli uomini le mani sbagliate sono un po’ dappertutto: e dunque la bambina è costretta a fingere di essere un ragazzino. Porta i capelli corti, veste abiti da maschietto, evita di parlare in pubblico. Tutto questo mentre padre elabora per lei dei piani di fuga da eventuali situazioni di pericolo. Che ovviamente non mancano.
Da McCarthy a Ghost Story
Insomma, per immaginario siamo dalle parti di The Road di Cormac McCarthy (con annesso adattamento di John Hillcoat), Children of Men di Alfonso Cuarón, e Leave No Trace di Debra Granik; per suggestioni e approccio alla messa in scena l’eco è invece quello di Ghost story. E difatti lo sguardo di Affleck non è mai intrusivo, avanza per riduzioni e distacchi come nel film di David Lowery, privilegiando sopra ogni cosa dialoghi e interazioni, mentre la tavolozza blu-grigiastra di Adam Arkapaw coglie paesaggi rurali e abbandonati (le atmosfere sono quelle del primo True Detective in cui Arkapaw era già direttore della fotografia). Ecco allora che Light of my life prende la forma di una lenta e vulnerabile discesa in un microuniverso famigliare, con una serie di flashback che riesumano anche i fantasmi del passato (la madre di Rag interpretata dalla Elisabeth Moss di The Handmaid’s Tale) e che impreziosiscono ogni piccolo gesto che i due protagonisti consumano nell’inferno in cui sono costretti a muoversi e che sembra poter saltare in aria da un momento all’altro. Soprattutto Affleck è loquacissimo, lontano anni luce dai silenzi dolorosi di Manchester by the sea, come se avesse bisogno di parlare, di esprimersi, di spiegarsi.
Light Of My Life e la questione di genere
E forse non è un caso. Otto anni fa due donne coinvolte nella produzione di Joaquin Phoenix – Io sono qui! avevano accusato Casey Affleck, regista del film, di molestie. I fatti erano poi tornati sotto i riflettori della cronaca in occasione della campagna per gli Oscar nel 2016 per Manchester by the Sea e lo scorso anno quando l’attore rifiutò di presentare le nomination alla miglior interpretazione femminile durante la Notte degli Oscar. Affleck, da sempre sostenitore dell’Hollywood più “progressista” (diritti umani e veganismo, per dirne due) è rimasto chiuso in un silenzio assordante per quasi un decennio, anche durante la stagione più esposta del #metoo, quando fu di nuovo chiamato in causa per quelle vicende. Se pensiamo a questo, Light of my life prende le sembianze di una testimonianza pubblica, di un punto a capo artistico ed umano, di una riflessione sociale tanto delicata quanto necessaria. E allora la bravissima Anna Pniowsky (da tenere d’occhio da qui in poi) incarna non solo la figlia da proteggere, ma l’ultima scintilla di umanità da salvare in un mondo imbarbarito, come se la donna – figlia, madre, moglie – fosse l’ultimo baluardo che divide la legge della giungla da una società civilizzata, la violenza e la brutalità dalla gentilezza, l’annientamento della razza umana dalla sua redenzione. Affleck sa bene che il tema è ambizioso e potenzialmente retorico, ma lo affronta con un armamentario a basso impatto, contaminando la questione di genere da una parte con i codici del survive movie, dall’altra con il tepore del rapporto genitoriale, facendo respirare la narrazione tra minaccia e accoglienza, alternando momenti di tensione a ritratti crepuscolari, senza mai infilarsi nella declamazione o nella ridondanza.
In questo modo Casey Affleck disarticola e arricchisce una storia non originalissima attraverso una propria e personale visione del cinema e del mondo: insegnandoci che non serve inseguire modelli cinematografici se poi non si è capaci di far parlare le emozioni. E allora, a differenza di tanti altri attori dietro la macchina da presa, Affleck accelera sulla via dell’impressionismo, lasciando per strada vanità e virtuosismi non richiesti. Fino ad un finale amaro ma dolcissimo, che ci accompagna, con una sola battuta, dentro ad un ribaltamento dei ruoli uomo-donna capace perfino di commuovere. Ne siamo certi: se questo Light of my life è il primo assaggio della sua poetica, di Affleck autore sentiremo parlare ancora molto in futuro.
Light of my life sarà nei cinema italiani dal 21 novembre grazie a Notorious Pictures.