Prendete una famiglia al completo, con dentro tre generazioni fra nonni e nipoti; confinatela su un piccolo isolotto ai confini del mondo; fatela relazionarsi su questioni che riguardano il futuro dei loro cari e i fantasmi delle loro vite. E poi preparatevi al peggio.
Tre generazioni a confronto
Sono questi gli ingredienti di Algunas Bestias, film cileno in concorso al Torino Film Festival diretto da Jorge Riquelme Serrano che prova a raccontare vicende familiari su un’isola che non è oasi, ma è metafora umana dell’orrore nascosto, strisciante e appartato. In questo isolotto cileno, completamente disabitato e non collegato con la terraferma, approdano la coppia di Alejandro (Gastón Salgado) e Ana (Millaray Lobos) che, oltre ai due figli Consuelo (Consuelo Carreño) e Máximo (Andrew Bargsted), si portano dietro il nonno e la nonna materna, Antonio (Alfredo Castro) e Dolores (Paulina García), a cui hanno intenzione di chiedere un prestito per avviare un albergo nella vecchia casa (l’unica) e dare vita a un’impresa eco-turistica, di quelle moderne ed esperienziali. Quando Nicolas (Nicolás Zárate), il custode dell’abitazione, decide di abbandonare il luogo con l’unica barca disponibile, tutta la famiglia rimane completamente confinata, alla prese con le proprie tensioni e i propri conflitti. Dissidi che sono destinati ad esplodere fino a toccare una vetta inimmaginabile e disturbante, in cui c’entra la violenza psicologica quanto l’incesto.
Fra Haneke e Larrain
Il modello di Serrano è esplicitamente quello di Michael Haneke (su tutti quello de Il tempo dei lupi) e di Pablo Larrain, sia nel modo in cui cattura la tensione della famiglia (lunghi piani sequenza confinati in inquadrature fisse), sia nel tentativo di esplorare l’orrore nascosto, i piccoli drammi e livori personali che la famiglia tende ad accumulare segretamente. Ai ritratti collettivi Serrano alterna un montaggio ritrattistico sui singoli individui, quasi a voler evidenziare un ulteriore isolamento personale oltre che quello familiare. C’è da dire che in tutta questa lenta discesa nell’inferno c’è una certa bravura e precisione NEL rendere queste dinamiche pronte ad esplodere senza salti improvvisi e poco credibili, preparando il terreno fino alla sordida violenza finale, una vera e propria frustata alla morale e ai tabù restituita con una freddezza e un distacco disarmante.
Una famiglia, un paese
Ma se Algunas Bestias vuole imbeccare lo shock lo fa soprattutto per traslare il dramma familiare in dramma sociale e culturale. Gli attriti fra le due famiglie nascondono in realtà contrasti ancora più profondi della società cilena: i conflitti di classe fra poveri e ricchi (nonno e nonna materni sono vecchi proprietari terrieri), i conflitti razziali tra bianchi e i meticci (i figli di Alejandro), i conflitti culturali di un paese che guarda ancora al passato e quello di un paese che prova a guardare il futuro. L’isola claustrofobica di Serrano diventa quindi metafora, fin troppo chiara per certi versi, del Cile come paese diviso e in continua guerra con se stesso, emarginato dal mondo che conta e soprattutto incapace di liberare le nuove generazioni ma anzi privarle del loro avvenire autonomo e indipendente. Ecco che allora l’atto stesso dell’incesto diventa un modo di trasmettere quel vulnus di paese dai nonni ai nipoti, perpetuando il declino morale ed etico del Cile.
Nonostante questi buoni intenti e tutto l’armamentario attoriale (con Castro e Garcia al solito giganteschi) il problema di Algunas Bestias è la mancanza di vero coinvolgimento emotivo, di una spontaneità che ci saremmo aspettati più necessaria, di un coraggio meno provocatorio e più indagatore. Girato in soli 10 giorni, Serrano pare aver lavorato soprattutto sul montaggio, restituendo un’opera forse per certi versi troppo posticcia e imprigionata in questa tirata metaforica tra intimo e politico. Decisamente deludente per un cinema, quello cileno degli ultimi anni, sempre capace liberarsi oltre il convenzionale.