Thirst, film proposto fra dieci film di giovani registi europei per l’Artekino film festival, diretto da Svetla Tsotsorkova – e con Monika Naydenova, Alexander Benev, Svetlana Yancheva – è un lungometraggio del 2015 di produzione bulgara che sa sorprendere per uno stile limpido e semplice, rimarcando temi profondi.
THIRST: LE LANDE BULGARE, FRA NATURA E CULTURA.
Su una collina, in un piccolo villaggio bulgaro, vive una famiglia ai limiti della civiltà: una lavandaia, vessata dal lavoro, riceve giornalmente carichi di lenzuola da lavare e stirare per lussuosi hotel, seppure in una carenza d’acqua causata dalla siccità. Ad accompagnare la storia, il marito e il figlio della donna che circoscrivono un nucleo familiare chiuso e complesso.
L’arrivo di due rabdomanti (padre e figlia) – a cui la famiglia si affida per ricercare l’acqua – rappresenta l’elemento che scardina il ciclo naturale di lavoro-ricavo-lavoro a cui la famiglia è completamente assuefatta e lo è necessariamente per poter sopravvivere.
ETEROTOPIA: IL PRECIVILIZZATO NEL CIVILIZZATO
Il soggetto è una storia semplice ma incisiva. Una bella storia da cinema indipendente, che non manifesta la superficiale priorità di rispondere alle esigenze del mercato filmico – evadendo così dal girone del capitalismo cinematografico – ma mira a scavare, puntando a un altro obiettivo: costruire una narrazione che racconti una verità nascosta nelle pieghe di uno spazio antropico ancora non civilizzato, quale è il piccolo villaggio della Bulgaria in cui avvengono gli eventi.
In qualche modo, la proposta è quella di un’eterotopia a cerchi concentrici, di luoghi nei luoghi, nello specifico un villaggio e, all’interno di questo, una famiglia che si annida e si arrocca nei meandri della civiltà, che serra la propria identità su confini geografici e culturali, nel tentativo di non farsi contaminare dal civilizzato che si staglia a valle. Di fatto, l’unico contatto fra la famiglia protagonista del film e il mondo civile è proprio rappresentato dalle lenzuola, fonte di lavoro e guadagno, che distendono la loro presenza fra il pre-civilizzato e il civilizzato.
Proprio in quei luoghi atavici – nello spazio in cui l’insediamento umano è minimo– la potenza dell’immagine cinematografica riesce a restituire pienamente lo sfondo antropologico del film – nella lotta fra natura e cultura – con un’ottima direzione della fotografia, alla quale si prestano le desolate lande bulgare. Così, l’immagine filmica e la sceneggiatura riescono bene a rendere il senso dell’isolamento, ritraendo solitudine, annichilendo il vitalismo, riducendo la presenza umana e rimuovendo dalla Natura l’elemento fra tutti essenziale alla vita stessa: l’acqua.
LA NATURA, LA CULTURA E IL “CIÒ CHE RESTA”
La storia della Tsotsorkova è una storia che si focalizza sui resti, sullo scarto della civiltà, su ciò che rimane nell’uomo della sua originaria appartenenza alla natura. Questo nucleo di interesse è facilmente individuabile proprio grazie ai luoghi, quelli puri, ancestrali dove la frontiera fra la vita animale e la vita civilizzata è sempre aperta, lasciando intravedere ancora una forte senso di lotta per la sopravvivenza. E se le lenzuola, bianche e pulite, – leit-motiv presente in tutte le scene del film – vengono intaccate da un tenero cagnolino, l’uomo che lotta non ha tempo per carezze e coccole.
L’uomo che lotta combatte per difendere le lenzuola, unico mezzo di sussistenza. È questa la verità che racconta la Tsotsorkova: nei luoghi ibridi, in cui la raffinata civiltà non sta di casa, non c’è spazio per gli sfizi aristocratici, o per gli artifici culturali surrogati della civiltà; in alcuni luoghi c’è necessità di posticipare il superfluo, con lo scopo di sopravvivere soddisfacendo i bisogni primari: “mangia in questa vita, leggi nella prossima”.
TERRA, ACQUA E LENZUOLA
Forse della civiltà non si può fare a meno, perché l’uomo – animale malato – è vita in movimento che costruisce, ridefinisce il suo habitat; l’uomo è obbligato a costruire nicchie, perché c’è un tono di diversità che – irrimediabilmente – lo conduce a cercare e costruire spazi civilizzati.
La Tsotsorkova nelle sequenze del film – mediante l’utilizzo della forza simbolica di acqua e terra – mostra gli elementi essenziali per l’autosufficienza di ogni specie che è sottoposta al circolo naturale di creazione e distruzione; ma accanto ad acqua e terra restano le lenzuola, quelle chiare, di seta, delicate, prodotto della civiltà più raffinata. Queste immagini abbinate non possono che produrre contrasto, ma è un contrasto ben noto, antico quanto è antica la storia della civiltà. Qui il film scivola semanticamente su un significato simbolico più pregnante, ricco di altro, di quell’altro non meramente naturale o fisiologico, di quell’altro che rappresenta il frutto della costruzione umana in quanto seconda natura.
Le lenzuola sono calore, protezione, intimità, emozioni, relazioni, bisogno di un misticismo che si palesa nella fede che la famiglia nutre per i due rabdomanti. In modo paradossale vengono rese nel film la complessità e la fragilità dell’esistenza umana, nella sua tensione fra ciò da cui si proviene e ciò a cui ci si affida.
La fede diventa un modo per restare aggrappati all’esistenza, per poter sopravvivere. Tuttavia – qui l’implicito monito dell’autrice – per poter vivere serve altro. Serve un meccanismo di evasione che permetta di spezzare il senso di alienazione e i ritmi di produzione infiniti.
Nell’isolamento indotto dal lavoro e dalla natura, la sete non è solo bisogno fisiologico, quanto bisogno dell’umano, di scosse emotive che traslino la vita su un piano diverso: maggiormente sofferto, certo, ma vero perché meno vicino alla bestia e più vicino all’uomo.