Dopo aver incantato il Sundance Film Festival e la Festa del Cinema di Roma lo scorso anno, arriverà finalmente nelle sale italiane, su distribuzione Adler Entertainment, Honey Boy: l’opera prima della regista israelo-americana Alma Har’el mette in scena, prendendo come spunto la vita tormentata di Shia LaBeouf, il lato meno scintillante di Hollywood, rappresentato dai giovanissimi attori emergenti che, sfruttati dalle loro famiglie, hanno avuto poi nel corso della loro vita grandi difficoltà nel riuscire a lasciarsi alle spalle un passato complicato.
HONEY BOY È LA STORIA SEMIAUTOBIOGRAFICA DI UN RAPPORTO FAMILIARE DISFUNZIONALE
Il film racconta la storia di Otis (Lucas Hedges), un giovane attore dall’infanzia molto turbolenta che, per cercare di preservare la sua salute mentale, si rifugia nel lavoro (aiutato anche dalla terapia). Nel corso del lungometraggio viene dato molto spazio agli inizi della carriera del protagonista, in cui vediamo un piccolo Otis (Noah Jupe) in balia del padre James (Shia LaBeouf), un ex clown alcolizzato e violento che vede nel figlio l’unica via di salvezza ma, contemporaneamente, riflette su di lui tutte le sue frustrazioni e le sue angosce.
ALMA HAR’EL È PARTE INTEGRANTE DEL SUCCESSO DI HONEY BOY
A leggere la trama di Honey Boy, data la tematica centrale, il rischio di trovarci di fronte ad un melò capace di far leva in maniera grossolana sui sentimenti del pubblico poteva essere concreto ma per fortuna Alma Har’el dirige una pellicola di grande spessore. La regista, che proviene dal mondo del documentario e dei videoclip, dimostra di essere a suo agio anche con il cinema di finzione: già dall’inquadratura iniziale infatti si capisce come la Har’el gestisca ottimamente sia le sequenze più costruite che le scene in cui la camera a mano è preponderante. Inoltre la durata della pellicola (appena 94 minuti) permette alla cineasta di eliminare i tempi morti, mantenendo in questo modo l’attenzione dello spettatore sempre alta.
Ciò che colpisce di Honey Boy è, nella sua drammaticità, la capacità di trasmettere un’atmosfera sognante, quasi favolistica, che lascia spazio alla speranza, offrendo al protagonista quel percorso verso la redenzione a cui si aggrappa con tutto se stesso. Grazie anche ad un casting perfetto, in cui spiccano il bravissimo Lucas Hedges (che abbiamo imparato a conoscerlo grazie allo splendido Manchester By The Sea) ma soprattutto lo straordinario Noah Jupe (ragazzino che a soli 15 anni vanta già una carriera cinematografica di tutto rispetto), è impossibile non provare empatia nei confronti di Otis.
HONEY BOY CERTIFICA LA MATURITÀ ARTISTICA DI SHIA LABEOUF
Tuttavia, ciò che rende speciale la pellicola, è il contributo di Shia LaBeouf: l’attore diventato famoso con la saga di Transformers ha finalmente raggiunto la sua maturità artistica in questo progetto così personale. LaBeouf, nel periodo in cui si trovava in riabilitazione, scrisse la sceneggiatura del film come parte del suo programma di recupero e, a vedere il risultato finale, si capisce quanto la forza catartica di Honey Boy (il titolo si ispira al soprannome della star da bambino) sia dirompente. La scelta di interpretare il ruolo del padre di Otis era l’unica possibile per rendere il lungometraggio cinematograficamente potente; già in Nymphomaniac e Lawless abbiamo visto un interprete in grado di offrire prove di qualità però, questa volta, l’intensità e la passione che ci mette nel dar vita al personaggio di James sono tali da regalarci la performance più convincente della sua carriera. Mettere in scena così efficacemente il difficile rapporto padre/figlio ispirato all’infanzia di LaBeouf (grazie anche alla chimica tra l’attore classe 1986 e Noah Jupe) ci aiuta a comprendere non solo la sua tormentata vita privata ma il motivo per cui tanti enfants prodiges del cinema americano (come Macaulay Culkin, per fare un nome) siano entrati nello stesso tunnel, senza esserne mai usciti del tutto.
Tim Burton qualche anno fa dichiarò che per lui i film sono «una costosa seduta di terapia»; bisogna dare atto a Shia LaBeouf e ad Alma Har’el di essere riusciti in Honey Boy ad abbracciare, con coraggio e originalità, questa filosofia, realizzando una pellicola difficile da dimenticare.