Lilli e il Vagabondo è il remake live action in tecnica mista del classico del ‘55, ovviamente firmato Disney, uscito sulla piattaforma Disney+ a Novembre 2019, e dal 24 Marzo disponibile anche in Italia, con le voci originali di Tessa Thompson (Lilli), Justin Theroux (Biagio).
Il film riprende pedissequamente l’originale con pochissime aggiunte e che la Disney sapesse già in anticipo che non avrebbe sbancato al botteghino era già nell’aria, dato il basso budget e il lancio sulla piattaforma Disney+ e non nelle sale. Operazione scaltra, tuttavia, perché costituisce una delle attrattive principali per aumentare il numero di utenti sulla piattaforma streaming.
LA DISNEY E L’EMPATIA: LA TECNICA CHE GUASTA IL CONCETTO
Ultimamente il dilemma con la Disney è se discutere di soggetto, sceneggiatura e temi oppure se operare un confronto con ciò che ha già prodotto, e che oggi tende quasi compulsivamente a riprodurre. Per Lilli e il Vagabondo il tema classico (già trattato nell’originale) è quello del disadattamento e dell’abbandono; quello di un’arte della sopravvivenza modulata ora nella forma di una vita vissuta per strada (il vagabondo), ora nella forma di una vita vissuta per reggere il confronto con le carenze affettive, in un ambiente in cui la lotta diventa psico-emotiva e non solo fisica (Lilli), disegnando il tutto nella cornice di una differenza di classe.
A questo si aggiunge l’incomunicabilità inter-specifica se non fosse per l’adozione di un’etica della cura che orienta lo sguardo verso la comprensione del bisogno dell’altra specie. La Disney in questo ha sempre saputo operare, facendo leva sull’empatia: sintonizzarsi con il mondo animale umanizzandolo e fornendogli un elemento indispensabile: il linguaggio. Il che rende più facile l’immedesimazione del bambino, che quindi adotta la dovuta distanza, pur condividendo sentimenti e stati d’animo delle specie “non-umane”.
Forse, questa umanizzazione risulta eccessiva e con ricadute tragiche sotto il profilo tecnico: infatti non poco disturba il passaggio dall’immagine reale a quella in CGI che rende le espressioni facciali spesso perturbanti, facendoci scoprire che esiste una uncanny valley anche per le creature a quattro zampe. Uno spaesamento compensato ora da una sceneggiatura che offre momenti conditi da battute fugaci che raggiungono un picco di umorismo estremamente apprezzabile, ora da cameo impensabili come quello di F. Murray Abraham nei panni del ristoratore Tony.
LILLI E IL VAGANDONDO: UN IPOTETICO CROLLO CONCETTUALE DALL’INTERNO
Andando a rintracciare una linea tematica più profonda e trasversale all’opera disneyana, si avverte – nonostante il tentativo di animare il mondo permetta di comprendere le ragioni e le finalità interne ed esterne alla specie – comunque il senso di un fallimento e di una stonatura. Se la natura è regolata dai suoi meccanismi giustificabili in un’ottica di “naturalizzazione della morale”, allora sorge spontaneo chiedersi perché questo dono della verbalizzazione non sia offerto a tutti, come nel caso del topo malvagio che si aggira per il quartiere in cui risiede Lilli. Qui sta un po’ la pecca concettuale: o non ci sono buoni e cattivi, oppure ci sono. Così, in questa operazione panteistica disneyana – in cui a tutti è offerto il dono della coscienza – pare che venga meno solo il regno dei topi (paradosso dei paradossi per la Disney), mostrando così un pesante buco concettuale nel significato che sottende la narrazione.
LA DISNEY E L’EDUCAZIONE ALLE EMOZIONI
In fondo, però, la Disney si muove verso orizzonti di senso al di là di questa constatazione, per offrire un’esperienza catartica a tutte le fasce d’età e il cui scopo argina una critica nello stile di cui sopra. È pur vero che, anche per il piccolo pubblico, il colosso della filmografia animata propone ormai una dose di realtà che non è mai in eccedenza e che si arricchisce di toni spesso cupi e mai eccessivamente fiabeschi, rendendo meno velleitario l’intento educativo.
Il film diventa un’educazione alle emozioni, un invito a rivivere il senso della tenerezza (che non guasta), anche se per molti aspetti già visto e sperimentato nel classico, a cui il remake – in quanto surrogato – irrimediabilmente si sottodetermina dovendo sempre reggere il confronto con un gigante incrollabile; per cui non può far altro che adagiarsi sulle spalle di quel gigante di ferro.
È dunque un rilancio per le generazioni contemporanee, che possono condividere valori trasversali mediate dalle nuove forme dell’immaginario, ormai così tanto mescolato con il reale. E se la Disney di reale se ne intende molto ultimamente è perché ha sempre saputo che attraverso un’attenzione sostenuta sulla realtà, ci si rende conto che questa supera di gran lunga l’immaginazione (secondo un adagio inflazionato ma condivisibile).
Se si ha necessità di storie, si ha anche bisogno di fiabe, di quelle che adottano l’immaginario simbolico pulito e polarizzato per ridurre il senso della complessità. Per questo – seppure sia un prodotto discreto – il nuovo Lady and the Tramp non raggiungerà mai la dolcezza e la delicatezza dell’originale del ‘55, quello fiabesco, primo e vero che sapeva dire nella forma più idilliaca quanto sia “dolce sognar e lasciarsi cullar”.