Com’è successo che un piccolo film tedesco, con attori tedeschi e che narra una storia profondamente tedesca diventi in pochi mesi un caso cinematografico mondiale? La domanda fu lecita all’epoca ed è lecita oggi. Good Bye, Lenin!, dramedy un po’ storica e un po’ ironica diretta da Wolfgang Becker presentata al Festival di Berlino del 2003 e ora disponibile in DVD e Blu-ray CG Entertainment, in pochi mesi dalla sua uscita diventò la pellicola con più incassi nella storia del cinema tedesco in patria e all’estero, arrivando persino a meritarsi una nomination ai Golden Globes di quell’anno. Di risposta ce ne più di una, ma il segreto di tale successo non può non fare i conti con quel fenomeno della Ostalgie (il sentimento nostalgico nato nei primi anni 1990 nella Germania orientale a seguito della scomparsa della Repubblica Democratica Tedesca) e che il film di Becker è capace di rileggere in chiave universale.
GOOD BYE, LENIN! E LA RESURREZIONE DELLA DDR
La storia raccontata è nota: Christiane Kerner (Katrin Sass), attivista per il progresso sociale della Germania dell’Est ha un malore e cade in coma proprio nell’ottobre del 1989. Quando si risveglia, otto mesi dopo, il muro di Berlino è stato abbattuto e la DDR non esiste più. Il figlio Alex (Daniel Brühl), da sempre critico del regime socialista adesso ha un grande problema: deve evitare che la madre venga a sapere della riunificazione tedesca perché un ulteriore shock le sarebbe fatale. Confinando in casa la madre e facendosi aiutare dalla sorella Ariane (Maria Simon), dalla sua ragazza Lara (Čulpan Nailevna Chamatova) e da un amico videomaker (Florian Lukas), Alex fa rivivere la DDR a sua immagine e somiglianza, con un’illusione tanto pittoresca quanto sempre più difficile da mantenere in piedi. Le cose si complicano ulteriormente quando alcune vicende personali di Christiane torneranno a galla, svelando nuove verità sul suo passato e sul suo rapporto con il marito Robert (Burghart Klaussner) che molti anni prima era fuggito ad ovest del muro.
UN FILM CON INFLUENZE TRA KUBRICK E FELLINI
Ben scritto, ben recitato (è il film che lanciò Daniel Brühl) e con delle bellissime musiche composte da Yann Tiersen, quello che colpiva all’epoca e colpisce ancora oggi di Good Bye, Lenin! non è solo la ricostruzione storica ma la capacità di trasmettere l’universo della Repubblica Democratica Tedesca attraverso un vestito “pop”. L’operazione non era facile: film sulla DDR c’erano già stati dopo la caduta del muro (si pensi a Sonnenallee di Leander Haussmann) ma non erano riusciti ad avere un’eco oltre confine e a rendere quella storia qualcosa di immediatamente comprensibile a chi non l’aveva vissuta. Becker allora decide di riproporre la fedeltà degli ambienti e dei colori della Germania dell’Est ma allo stesso tempo fa un uso massiccio della citazione cinematografica per trasfigurare quel mondo, decodificarlo per un pubblico non tedesco, renderlo, come dicevamo, universale. Gli esempi sono innumerevoli. L’intera sequenza iniziale ambientata in ospedale è un omaggio a Tre colori – Film blu di Krzysztof Kieślowski; la cinematografia di Stanley Kubrick fa capolino sia nella citazione di 2001: Odissea nello spazio durante il cortometraggio matrimoniale, sia nella citazione di Arancia Meccanica quando Alex e Denis riordinano la stanza della madre; quando la porta dell’ascensore che porta al piano terra Christiane si apre e lascia filtrare la luce ricorda l’escamotage utilizzato in Angel Heart – Ascensore per l’inferno di Alan Parker. E ancora, qua e là sono sparsi più o meno consapevolmente frammenti di Billy Wilder e Boris Pasternak. Fino a quella scena finale, simbolica e quasi esilarante, con la statua di Lenin che vola su Berlino e riecheggia il felliniano Gesù Cristo all’inizio de La Dolce Vita.
REALISMO E STILIZZAZIONE
Se le citazioni del cinema (occidentale e orientale) svolgono una funzione ben precisa per raccontare la DDR, allo stesso modo Becker sceglie di diversificare lo stile della regia nel suo accompagnare la narrazione. Le scene incentrate sulla critica delle vecchie strutture governative utilizzano un obiettivo più realistico, freddo, distaccato (come la manifestazione in strada iniziale a cui partecipa Alex). Un approccio più morbido e colorato viene utilizzato invece per le scene che guardano più affettuosamente alla vecchia DDR compreso il largo uso dei feticci di quell’epoca (i famosi cetrioli Spreewald per intenderci). C’è una dicotomia fortissima dunque tra un realismo rigido e uno stilizzato, fra ricordo “istituzionalizzato” e ricordo “affettivo”, quasi fosse il risultato di una “nostalgia ambivalente” e che è il vero fulcro attorno a cui si muove tutto il film. Diversamente da un film come Le vite degli altri, dove domina, fra i toni grigi, la condanna di un regime burocratico che opprime l’individuo per preservare la collettività, in Good Bye, Lenin! la narrazione ruota attorno ad una transizione da un mondo all’altro, capace di essere al tempo stesso dolorosa ma anche umoristica. Insomma, Becker fa suo il sentimento dell’Ostalgie come mezzo per infiltrarsi nelle contraddizioni e mettere in discussione sia ricordi sia dell’Ovest che dell’Est, tanto che, se ci sono, gli avversari sono duplici: da una parte il socialismo della DDR, dall’altra la nuova Germania unita e il suo concetto di “progresso” che sembra tagliare fuori le aspirazioni della famiglia Kerner.
GOOB BYE, LENIN! E LA NOSTALGIA RESTITUTIVA
Becker insomma si divincola da una dicotomia retorica e scontata in cui da una parte c’è la DDR e dall’altra la Germania Federale, e prova a raccontarci altro: è possibile una terza via, un modo per far vivere le tensioni positive del passato dentro il presente. Lo stesso idealismo di Christiane che diventa un punto di riferimento per i vicini da casa quando devono scrivere lettere di protesta alle aziende di elettrodomestici: questo potrebbe far pensare retoricamente ad un elogio per quei tempi in cui, ideologia a parte, c’era qualcosa almeno per cui lottare e di cui far parte. In realtà è una “distorsione” nostalgica, una devozione per qualcosa che non esisteva nella realtà ma nel quotidiano in cui vive adesso trova un suo nuovo scopo. Allo stesso modo, ad un certo punto, Alex racconta come, “la Repubblica Democratica che stavo creando per mia madre, assomigliava sempre più a quella che avrei potuto desiderare.” In tutta la sua apatia per il passato e l’eccitazione per le opportunità di riunificazione, Alex ricostruisce un mondo ideale, attraverso il concetto di “nostalgia restitutiva”: ricordare il passato omettendo gli aspetti negativi, idealizzando una DDR che sui libri di storia non sarebbe mai potuta esistere.
LA NOSTALGIA RIFLESSIVA
Ma questo meccanismo non può funzionare per sempre, bisogna guardare oltre e far dialogare passato e presente. E allora, piuttosto che i grandi capovolgimenti della storia, sono le relazioni private e familiari, con le loro verità nascoste e i ricordi confusi, la vera “nostalgia del quotidiano” che fa pulsare il cuore di Good Bye, Lenin!. Solo trasfigurando la memoria di un paese con quella più privata ed intima si possono risolvere i conflitti fra ciò che si è e quello che si vorrebbe essere, ed è quello che alla fine Alex decide di perseguire mettendosi in cerca di suo padre. Da quel quel momento in poi la nostalgia diventa il rapporto tra biografia individuale e la storia delle nazioni, tra memoria personale e collettiva: un’alchimia capace di plasmare sentimenti e mondi completamente nuovi rispetto alle rispettive basi di partenza. In psicologia si chiama “nostalgia riflessiva” e, al contrario di quella “restitutiva”, parla di come sia necessario ricordare il passato per come è stato (piacevole e spiacevole che sia) per saper guardare in modo nuovo al presente. Si tratta di un’elaborazione del lutto, privato e pubblico, a cui alla fine arrivano anche Alex e i suoi cari.
Dopotutto questo ci racconta quel finale in cui la morte di Christiane diventa per la famiglia e gli amici un’occasione per riunirsi, accendere un razzo giocattolo in cima ad un grattacielo e farlo esplodere in aria. Un tributo che inizialmente potrebbe essere letto come un ultimo inno al “progresso” socialista, ma che si rivela invece come una testimonianza del potere della memoria individuale su quella collettiva. L’unica possibilità di affrontare il futuro non è tanto ristabilire il proprio ruolo nella storia collettiva, quanto riconoscerne i limiti di fronte alle storie personali e ai propri ricordi più intimi. Perché quella, sembra dirci Becker, è la nostalgia vincente. Quella che dovremmo coltivare tutti.