32292 punti, 6 volte campione NBA (con altrettanti titoli di MVP delle Finals), 5 volte MVP della Regular Season e Difensore dell’Anno nella stagione 1987-1988: Michael Jeffrey Jordan, simbolo dei Chicago Bulls dal 1984 al 1998, è senza ombra di dubbio il giocatore più rappresentativo della storia della pallacanestro (sul sito ufficiale della NBA la sua biografia comincia con la significativa frase “Per acclamazione, Michael Jordan è il più grande giocatore di basket di tutti i tempi”). Tuttavia le vittorie e i record personali non sintetizzano appieno ciò che è stato Jordan dal punto di vista della cultura popolare, un fenomeno travolgente diventato brand (le Air Jordan hanno contribuito a rendere la multinazionale Nike un punto di riferimento a livello mondiale) che ha segnato la strada, piaccia o no, al moderno divismo dello sport professionistico (l’impatto mediatico di icone come Cristiano Ronaldo o LeBron James non sarebbe stato lo stesso senza l’arrivo di MJ).
The Last Dance, documentario in 10 episodi prodotto da ESPN e Netflix, già dal trailer di lancio aveva creato hype smisurato ma l’emergenza Coronavirus – che, tra le altre cose, ha stoppato anche la stagione NBA – ha spinto i network ad anticipare l’uscita della serie, inizialmente prevista per giugno. Scelta assolutamente vincente: su Twitter infatti Netflix ha annunciato il 20 maggio che lo show è arrivato al di fuori degli States in 23,8 milioni di case in sole quattro settimane (in Italia è costantemente nelle prime posizioni della Top 10 delle serie più viste). Sicuramente l’astinenza da sport ha giocato un ruolo molto importante nel successo travolgente del documentario ma è indubbio che, ancora oggi, la figura carismatica di Jordan sia ancora una delle più amate dagli sportivi di tutto il mondo.
THE LAST DANCE, OVVERO L’ULTIMA STAGIONE DEI MITICI CHICAGO BULLS
The Last Dance mette in scena, attraverso immagini inedite, la stagione 1997-98 dei Chicago Bulls, quella che ha consegnato alla storia Jordan e soci grazie alla conquista del sesto titolo; lo show fa luce su tutti i retroscena di quell’anno molto particolare per la squadra NBA più iconica degli anni Novanta.
Fin dall’inizio della stagione, con l’annuncio da parte del General Manager dei Bulls di allora Jerry Krause di non voler rinnovare a campionato concluso il contratto del leggendario coach Phil Jackson (uno dei principali artefici del periodo d’oro della franchigia dell’Illinois, che abbiamo avuto il privilegio di intervistare in esclusiva), era percepibile nell’aria la chiusura di un capitolo importante dello sport moderno (Phil Jackson ribattezzò proprio quella stagione The Last Dance, ispirando il titolo del documentario).
Nel corso dei dieci episodi assistiamo a tutte le tappe della corsa al titolo, dal precampionato a Parigi fino a gara-6 delle Finals del 1998 in cui MJ, grazie al canestro decisivo contro gli Utah Jazz a Salt Lake City, regalò l’ultimo anello della squadra di Chicago. Ovviamente i riflettori dello show sono puntati principalmente sul numero 23 più famoso dello sport ma non mancano ritratti approfonditi sugli altri protagonisti di quella cavalcata straordinaria: oltre a coach Jackson, The Last Dance regala grande spazio a giocatori incredibili come Scottie Pippen (probabilmente il gregario più talentuoso della storia del basket mondiale, sempre al fianco di Jordan in tutti i successi dei Bulls e del Dream Team olimpico statunitense) e Dennis Rodman (uno dei migliori difensori della storia NBA, nonché personaggio estremamente controverso fuori dal campo) ma anche a gregari come Steve Kerr (affidabile tiratore che, dopo il suo ritiro da giocatore, è diventato l’allenatore artefice dell’exploit dei Golden State Warriors).
LO SHOW NETFLIX RACCONTA COME È NATA LA LEGGENDA DI JORDAN
La serie, oltre a concentrarsi sull’ultima straordinaria stagione, ricostruisce tutta l’epopea di Jordan con i Chicago Bulls a partire dal 1984 (anno in cui, proveniente dall’Università di North Carolina, venne selezionato nel draft come terza scelta). Gli autori di The Last Dance, da bravi filmmaker quali sono, sanno benissimo che per realizzare un prodotto godibile non si possono limitare alla mera cronaca storica e sportiva ma è necessario costruire un racconto che abbia elementi drammaturgici coinvolgenti e, da questo punto di vista, la storia di Michael Jordan e dei Bulls è perfetta.
Il cammino della squadra sei volte campione NBA è degno di un grande film: prima di arrivare a vincere il primo titolo nella stagione 1990-91, Jordan e soci hanno dovuto lavorare molto duro, a fronte anche di cocenti delusioni (come ad esempio le sconfitte contro la storica bestia nera dei Bulls anni Ottanta, i Detroit Pistons di Isiah Thomas), prima di arrivare ai livelli stellari di inizio anni Novanta. Dopo i primi tre titoli di fila assistiamo alla caduta, ovvero il primo, chiacchierato ritiro di MJ (causato da motivazioni personali, in primis la morte del padre) che portò Chicago a terminare il suo ciclo di vittorie, prima della rinascita del team grazie al ritorno in campo di Jordan dopo 17 mesi. Da qui la dinastia riprende da dove aveva lasciato, con la vittoria di altri tre titoli prima del rebuilding ad opera di Krause.
Il GM viene rappresentato, in maniera molto ambigua (e criticata dall’ex cestista Toni Kukoc), quasi come se fosse il “cattivo” di questa vicenda; in una storia di successo il villain indubbiamente funziona (e il pubblico inevitabilmente prende le parti di Jordan) ma, in questo caso particolare, il paradosso è che il dirigente in realtà è stato l’architetto dei Bulls dei record, grazie alle sue scelte oculate.
THE LAST DANCE E LA MENTALITÀ VINCENTE DI MJ DIVENTATA ESEMPIO
Il messaggio che viene maggiormente risaltato in The Last Dance è l’ardente volontà di Michael Jordan di ottenere la vittoria a tutti i costi, sfociata più volte nel comportamento ossessivo-compulsivo. Tutti gli intervistati, dai suoi compagni di squadra agli avversari fino agli addetti ai lavori, hanno riconosciuto alla leggenda dei Bulls il duro lavoro quotidiano, diventando talvolta impopolare (molti cestisti che hanno giocato assieme ad MJ hanno subìto notevoli pressioni da lui), nel coltivare il suo immenso talento per diventare il miglior giocatore di sempre, arrivando addirittura ad inventarsi nemici e motivazioni pur di dare sempre il massimo.
L’applicazione e la disciplina di Jordan sono diventati un vero e proprio modello: la Mamba Mentality di Kobe Bryant, l’unico erede in campo di Jordan, parte proprio dall’esempio del numero 23 dei Bulls ma anche sportivi come Roger Federer o Cristiano Ronaldo hanno sempre visto in His Airness un simbolo di competitività e tenacia.
IL LATO PIÙ OSCURO DI JORDAN E IL CONFRONTO SCOMODO CON MUHAMMAD ALI
Il rischio, con un personaggio così amato, di scivolare nell’agiografia era dietro l’angolo ma Michael Tollin e Jason Hehir, rispettivamente produttore esecutivo e regista del documentario ESPN/Netflix, aggirano brillantemente l’ostacolo mettendo in risalto anche i lati meno scintillanti del giocatore entrato nel 2009 nella Basketball Hall Of Fame. Due sono i punti più controversi del Michael Jordan fuori dal campo: l’inclinazione al gioco d’azzardo e la volontà di non esporsi pubblicamente su temi socio-politici delicati.
Se la prima questione controversa, seppur molto discussa negli anni Novanta, in fin dei conti non ha mai intaccato più di tanto l’immagine di Jordan (David Stern, lo storico plenipotenziario della NBA, ha sempre smentito voci su una possibile squalifica del numero 23 dei Bulls per colpa della sua costosa passione ludica), diverso invece è il discorso per quanto riguarda la “neutralità” politica del campione americano.
La frase “anche i repubblicani comprano le scarpe” è emblematica riguardo al Jordan-pensiero (nonostante lo stesso interessato l’abbia liquidata nel documentario come una semplice battuta) perché dipinge perfettamente un uomo che, per scelta personale, non voleva compromettere il suo enorme potere mediatico e contrattuale con gli sponsor prendendo posizioni scomode (a differenza, per esempio, di LeBron James, molto attivo sui temi sociali). La comunità black (tra cui anche l’ex presidente Barack Obama) non ha mai perdonato del tutto la scelta di Jordan di non schierarsi pubblicamente a favore del liberale di colore Harvey Gantt alle elezioni del 1990 per un posto al Senato degli Stati Uniti nello Stato della Carolina del Nord (vinte dall’ultraconservatore Jesse Helms), offrendo il fianco al paragone scomodo con l’altra icona afroamericana dello sport statunitense ovvero quel Muhammad Ali che è stato per molte generazioni un paladino dei diritti civili e che, nel corso della sua carriera, ha rinunciato anche a compensi importanti pur di difendere ciò in cui credeva (anche se, ad onor di cronaca, bisogna segnalare il recente intervento di MJ sul caso George Floyd).
La portata globale del prodotto ESPN/Netflix ha portato inevitabilmente anche alla nascita di furiose polemiche attorno allo show e a Jordan stesso: da Scottie Pippen ad Isiah Thomas passando per l’ex compagno Horace Grant, fino ad arrivare al giornalista Sam Smith (autore nel 1991 di The Jordan Rules, primo libro che mostrava la superstar dei Bulls sotto una luce diversa), le voci fuori dal coro fanno capire quanto sia ancora oggi mediaticamente interessante il due volte campione olimpico con la Nazionale USA di basket. Le rivelazioni inedite su una figura che pensavamo di conoscere alla perfezione, il racconto avvincente di un incredibile (e quasi irripetibile) percorso umano e lo straordinario riscontro da parte di pubblico e critica rendono The Last Dance la più importante docuserie sportiva mai prodotta.