In occasione di Cinema al MAXXI, rassegna di approfondimenti curata da Mario Sesti, abbiamo incontrato lo straordinario cineasta italiano Matteo Garrone, che in una lunga serata fatta di ricordi, racconti e aneddoti ci ha regalato uno sguardo profondo sulla sua visione della settima arte e del suo lavoro tra set e sala di montaggio. Quello che è emerso dalla lunga chiacchierata è il ritratto di un cineasta profondamente sincero, che ama visceralmente il proprio lavoro e rifiuta ogni snobismo o freddo virtuosismo.
“L’idea iniziale per un film viene sempre da me. Non ha niente a che fare con la tecnica, devo solo trovare qualcosa che mi appassioni abbastanza da volerlo approfondire. A volte parto da episodi di cronaca (come per L’Imbalsamatore o Primo Amore), altre dall’idea di esplorare un genere specifico (ad esempio la fiaba de Il Racconto dei Racconti), ma quel che mi interessa veramente sono sempre i sentimenti, i conflitti, i desideri e magari le ossessioni dietro una storia”
LA SCENEGGIATURA COME PROCESSO CONTINUO
Garrone ci ha stupiti illustrando un lavoro creativo estremamente fluido e in divenire: “Trovato un soggetto mi metto a lavoro con Massimo e Ugo (gli sceneggiatori Gaudioso e Chiti, ndr) e lì inizia un processo che non si ferma neanche dopo il montaggio. Ovviamente si arriva sul set con uno script ben definito, ma io non sono di quei registi che riproducono perfettamente quanto già deciso. Innanzitutto gli attori, che sono quelli che vivono il personaggio sulla propria pelle, sono lasciati abbastanza liberi nell’interpretazione e possono anche aiutare a modificare alcuni passaggi per renderli più coerenti con il loro personaggio. A volte capita che ci siano vere e proprie riscritture sul set, tanto che non è raro vedere uno sceneggiatore al mio fianco quando giro”. Il processo di scrittura però continua anche dopo le riprese. “Con Marco Spoletini, in sala di montaggio, non ci sono praticamente mai divergenze creative però il montaggio è una riscrittura a tutti gli effetti. E le modifiche alla sceneggiatura non terminano nemmeno lì: ancor prima di iniziare un film già prevedo di destinare parte del budget di produzione per rigirare qualcosa dopo la sala di montaggio. Preferisco risparmiare su altro ma lasciarmi la possibilità di aggiungere riprese di pick-up, per me è una cosa fondamentale.”
LA RICERCA DELL’IMPREVISTO SUL SET
“Un set è qualcosa di vivo, e c’è sempre qualcosa di sorprendente o inaspettato che può arricchire il film in un modo che non immaginavi. Io lo cerco l’imprevisto. Quando giri è come andare a pesca: a volte prendi un pesciolino e a volte un salmone! Certo, quando l’imprevisto non è piacevole, ti senti solo e ti metti in discussione; a volte non sei sicuro di capire in che direzione stia andando il film. In compenso a volte ti imbatti in cose belle e sorprendenti, ti stacchi dalla macchina da presa con un sorriso ebete da bambino. Sì, stare sul set è come andare a fare la spesa al supermercato, poi quando sei in sala di montaggio devi vedere che ingredienti hai portato a casa e metterti a cucinare.”
GIRARE IN SEQUENZA CAMBIA TUTTO
“La ricerca degli attori è fondamentale. Non faccio casting tradizionali, però. Una volta, per ritrovare un pastore che era comparso nel mio primo cortometraggio e di cui nemmeno sapevo il nome, ho girato tutta la campagna romana di casale in casale e l’ho trovato che pascolava il suo gregge di pecore!”. Si mette a ridere, con l’aria di ripensa con molto affetto e un po’ di imbarazzo ai propri inizi.
“La fisicità è molto importante per me, ritrovare nella faccia di un interprete quello che vedo nel personaggio. Cerco anche un’onestà di fondo, qualcuno che possa arrivare all’interpretazione in modo molto semplice e naturale. Proprio per rispettare il lavoro dell’attore e vedergli in faccia sentimenti veri e spontanei, cerco sempre di girare in sequenza. I costi delle grandi produzioni, come nel caso di Tale of Tales (lui preferisce il titolo inglese, ndr), ti impediscono di tenere qualcuno fermo tre giorni in albergo; però far girare le scene nello stesso ordine in cui si susseguono nella storia cambia totalmente il lavoro dell’attore. Se avessi girato il finale de L’Imbalsamatore il primo giorno, non avrei mai ottenuto quello strano equilibrio tra dolore e sollievo che c’è negli occhi di Valerio Foglia Manzillo mentre la macchina con dentro Peppino affonda nel Po.”
IL FILM FINITO VA NEL DIMENTICATOIO
“La realizzazione di un film è un lavoro di aggiustamenti e cambiamenti continui e proprio per questo, una volta finito, è come se me lo lasciassi alle spalle. Ci sono miei film che non vedo da quando sono usciti, anche da 15 anni o più, e anche solo stare in sala durante le première è una tortura che mi risparmierei volentieri”. Emerge un’insicurezza di fondo, stupefacente visto il talento di Garrone. “Probabilmente è una forma di vigliaccheria. Non mi piace il rischio di imbattermi in qualcosa che non mi piace e che rifarei diversamente, ma che ormai non posso più cambiare!”
Aggiunge il regista: “Immaginatevi Cannes, immaginatevi di essere circondato da più di 2000 persone in quella sala e avere l’impressione che tutti provino quel che senti tu, che tutti conoscano a memoria ogni scena del film e che a tutti sembri qualcosa di eterno e lentissimo. Ho provato ad uscire durante la proiezione e a tornare in sala durante i titoli di coda, ma se la prendono a morte”.
L’INIZIO DELLA CARRIERA
Il cineasta romano, in un rapido excursus sulla sua carriera, ci regala suggestioni che raccontano la sua evoluzione artistica dai primi corti girati a 26 anni alla ricerca formale de Il Racconto dei Racconti. “Mi sono avvicinato molto tardi al cinema, all’inizio volevo fare tutt’altro: ero un insegnante di tennis e un pittore. La prima ispirazione era quel che vedevo intorno a me a Roma e mi interessava di avere uno sguardo che non ‘inquinasse’ la realtà. Forse anche perché sono cresciuto (annoiandomi a morte) dietro le quinte degli spettacoli teatrali di mio padre. Avevo un approccio tutto mio, cinematograficamente ‘sgrammaticato’, e Marco al montaggio si trovava spiazzato”. Spoletini, presente in sala, conferma come la totale assenza di un linguaggio scolastico lo abbia costretto a pensare in modo più creativo all’editing. Si arriva al primo vero successo, almeno di critica. “Quando con L’Imbalsamatore ho deciso di sperimentare con il genere noir, sono comunque partito dalla storia di cronaca del “nano di Termini” e poi ho cercato di cambiare l’ambientazione per ricreare un non-luogo adatto al genere. Stessa cosa per Primo Amore, dove ho provato a osare di più con le inquadrature”. In un divertente aneddoto, aggiunge che il primo montaggio della pellicola ispirata al romanzo autobiografico di Marco Mariolini era cortissimo e durava un’ora e cinque minuti.
LA CONSACRAZIONE
Si arriva al celeberrimo Gomorra, valsogli il riconoscimento internazionale. “Con Gomorra ho voluto ritrarre certe realtà dall’interno. Una delle scelte più azzardate è stata quella di chiedere di interpretare il ruolo di un boss a un vero pregiudicato. Questo parallelismo tra realtà e finzione non è necessariamente garanzia di una grande interpretazione, ma in quel caso sentivo che avrebbe funzionato. La cosa assurda fu quando, scoprendo che non sarebbe stato lui a uccidere Marco e Ciro, minacciò di restituire i soldi della posa e abbandonare il set. Nonostante i suoi conoscenti cercassero di dissuaderlo dall’apparire sullo schermo nella scena di un omicidio, lui insisteva con un inquietante Ti faccio vedere io come si uccide un cristiano“.
Anche in Reality Garrone ha cercato di mantenere uno stretto legame con la realtà. “Ho avuto la fortuna di trovare questo straordinario attore teatrale, Aniello Arena, che aveva trovato un riscatto al suo passato da camorrista recitando nella Compagnia della Fortezza nel carcere di Volterra. La produzione del film fu surreale: a causa del regime di semilibertà cui era sottoposto Aniello venivamo interrotti dai controlli dei Carabinieri sul set, e mentre normalmente si cerca il miglior albergo in cui far soggiornare il proprio protagonista, la produzione doveva cercare il carcere più confortevole della zona”.
LA SVOLTA FANTASY
“Dopo tanta realtà mi sono imbattuto in una meravigliosa raccolta di fiabe napoletane scritte nel ‘600 da Giambattista Basile e ho voluto provare qualcosa di totalmente diverso. Ispirandomi a quei testi e alle immagini dei Caprichos di Goya, con Tale of Tales ho voluto esplorare un terreno sospeso tra veglia e sogno, realtà e metafisico, comico e drammatico. Ci ho messo tutta la mia anima di pittore, provando a recuperare quella visione di cinema come magnifica illusione propria di Méliès. Un’esperienza totalmente nuova per me: uno sforzo produttivo da tenermi sveglio la notte, un cast di star internazionali, uno script in inglese, riprese non in sequenza. Purtroppo in quel periodo era anche venuto a mancare Marco Onorato, mio mentore e autore della fotografia di tutti i miei film, così affidandomi a un nuovo cinematographer (il Peter Suschitzky di Guerre Stellari – L’Impero Colpisce Ancora) ho dovuto trovare un compromesso e nella maggior parte delle scene ho per la prima volta abbandonato la macchina da presa, dirigendo in modo più ‘tradizionale’.
Una carrellata su tutto il cinema di Garrone insomma, e una summa della sua poetica. E se rivela che le sue passioni cinematografiche sono Il Posto delle Fragole di Ingmar Bergman, Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij e tra i contemporanei il cinema di Paul Thomas Anderson, nulla lo rappresenta più di La Palla n°13 (Sherlock Jr.) di Buster Keaton. “C’è tutto quello che amo. È puro, artigianale, semplice; è surreale ma non ha intellettualismi”. Ottima descrizione del suo cinema.