Quello di Burning – L’amore brucia, disponibile in DVD e Blu ray CG Entertainment e Tucker nonché in streaming su CG Digital, è un racconto camaleontico, scivoloso, una lenta discesa nell’odissea di un’ossessione che fa dell’intangibile la sua materia primaria. Dopotutto è già nei primi minuti che qualcuno ci viene ad avvertire che ciò al quale stiamo per assistere è una pantomima, un gioco basato sullo sforzo percettivo di poter concepire la presenza a partire dalla non-presenza.
Il film di Lee Chang-dong (sceneggiatore assieme a Lee Joon-dong, regista e produttore) si ispira a Granai incendiati di Haruki Murakami ed edifica se stesso a partire da castelli di carta dove convergono percorsi incidentali e incidentati, lentamente assemblati in una costruzione narrativa che si dilata poco alla volta e che poco alla volta lascia fluire dentro uno spettatore al quale è richiesta una prova di pazienza nell’apparentemente impossibile tentativo di assorbire l’ermetico che avvolge i tre personaggi protagonisti della storia. Burning dapprima crea le premesse e divide il mondo intero in due macro-categorie, ponendo sull’estremità di due sponde differenti i Piccoli affamati e i Grandi affamati, una sorta di derivazione dello yin e dello yang (della cultura cinese qualcuno si prenderà gioco) ammortizzato nel mezzo da una zona franca, spuria, indecifrabile.
Burning – L’amore brucia e il gioco degli estremi
Perché se il film esiste è in virtù del suo centro catalizzatore, la magnetica Hae-mi (Jeon Jong-seo), crocevia di un’umanità abbandonata al primordiale carattere del desiderio come spinta dell’agire, di una libertà corporea che necessità di svestirsi per far scorrere sulla propria pelle la gioia e lo strazio dell’essere al mondo. Ai suoi lati vorticano quei due affamati, fatti e assemblati a partire dal carattere estetico che li contraddistingue e qualifica all’interno del circo sociale dove Seoul, assieme alla sua provincia rurale, si configura come un plastico esempio di teatro di posa: c’è Lee Jong-su (Yoo Ah-in), che fa la spola tra fuori e dentro la città con il suo furgoncino scassato nel tentativo di sbarcare il lunario, laureato in scrittura creativa che attende di capire quale tipologia di romanzo stia scrivendo mentre osserva con avidità l’alta società; tra questi ultimi invece c’è Ben (lo Steven Yeun di The Walking Dead), bello, ricco, colto, insomma affascinante e avvolto da un alone di mistero che volutamente sembra alimentare mentre trova noiosa la compagnia degli esseri umani dei quali si circonda in cene e feste che egli stesso organizza.
Due mondi agli antipodi che nelle condizioni di una normale e feroce strutturazione della scala sociale mai sarebbero venuti a contatto, perlomeno mai in modo così intimo trovando come sinapsi proprio quella Hae-mi che sfugge probabilmente ad entrambi, ma che allo stesso tempo li ammalia, li trae a sé, chi per un motivo, chi per un altro, con il medesimo impulso di fondo volto al cannibalizzare il corpo, la carne. Burning sviluppa e accresce un costante senso di inadeguatezza ponendoci in particolare dentro lo sguardo sempre in difetto di Lee Jong-su, il primissimo personaggio che incontriamo e al quale rimaniamo poi incollati dietro la retina. La sua è una spesso e volentieri silenziosa contemplazione, un faticoso tentativo di captare e scalfire i dettagli (sui quali Chang-dong fa lavoro da amanuense) di un mondo che ammette essere mistero per lui.
Lee Chang-dong firma uno dei migliori film coreani della generazione
Nel momento in cui certe istanze, seppur opposte, trovano una percentuale di equilibrio sulle quali andarsi ad assestare, dal film è sottratto qualcosa, sfilato via in un atto di violenza narrativa che urla da tutti i pori disgrazia. Burning a questo punto si tende ancor di più, si fa ulteriormente dilatato e rimane ora più che mai in silenzio mentre si carica di sospetto e di uncini affilati dietro i sorrisi. Percepiamo la bile che monta nell’hummus tra le trame della pellicola (ci si avvia qui verso le due ore sulle quasi due e mezza complessive), in un film che sta divenendo altro davanti ai nostri occhi anche se come fisiologica evoluzione di un tratteggio sin lì delineato in maniera altrettanto arcigna. Però adesso ogni cosa si distorce in maniera inesorabile, la sicurezza percettiva si deforma in favore di un’impennata dalle parti dell’ossessione che, privata della possibilità di riuscire a trovare una risposta definitiva (ma, soprattutto, è mai stata posta la domanda?), prende il sopravvento in un quadro il cui colore inizia a colare lungo i bordi della superficie. Ed è sapiente il lavoro di Lee Chang-dong nell’addensare questo colore lasciandolo mescolare in modo indistinto tra le pieghe delle inquadrature dove alcune chiavi alla lettura vengono fornite, ma sempre in maniera velata, depistante, destinate più all’alimentare la forza di quel sibilo serpentesco che realmente intenzionate a ricercare una verità che un attimo prima è qui, un attimo dopo è già dissolta. Uscito inizialmente nel 2018, Burning è tra i migliori prodotti coreani della sua generazione, rapidamente oscurato dal folgorante successo dell’acclamato connazionale Parasite, ma altrettanto degno di essere recuperato qualora ve lo foste perso.