L’ex presidente degli Stati Uniti George W. Bush ha prestato davvero servizio, come lui afferma, nella Tx Ang (Guardia nazionale aerea) durante la guerra in Vietnam negli anni Sessanta? Secondo la redazione del programma 60 Minuti della Cbs News no.
Nel 2004 Bush è in corsa per il suo secondo mandato alla casa Bianca e la produttrice televisiva Mary Mapes (Cate Blanchett) con i giornalisti Dan Rather (Robert Redford) e Mike Smith (Topher Grace) raccolgono le prove e ‘sparano’ la notizia: “il presidente ha mentito”. Ma i documenti raccolti sono la classica bufala, infatti potrebbero essere falsi (nella realtà processuale lo sono) e i tre ci rimettono il posto di lavoro.
La storia di Truth – Il prezzo della verità si inserisce nel filone del giornalismo investigativo così caro agli americani ed è ispirata alle memorie che Mary Mapes raccolse nel 2005 in un libro. Merito della sceneggiatura di James Vanderbilt, già tra l’altro autore dello script dell’avvincente Zodiac di David Fincher, che qui firma anche la sua prima regia e ci consegna un racconto dall’incedere mai scontato (risultato non trascurabile) e dai personaggi molto ben caratterizzati. Del resto cos’altro dire su Robert Redford e Cate Blanchett. L’uno credibile anche quando quasi ottantenne si rimette in discussione con un film ‘fisico’ e ironico come A spasso nel bosco, l’altra che ormai può tranquillamente parlare solo con gli occhi (Carol).
Ma sbaglierebbe chi volesse vedere in Truth la mera rievocazione di una vicenda, per quanto possa esser stata controversa e possa aver provocato violente polemiche politiche e uno scandalo che ha travolto i media americani. Se fosse solo questo il lavoro sarebbe giunto fuori tempo massimo e avrebbe davvero poco senso. Il film racconta invece di un mondo che, evidentemente anche negli USA, sta scomparendo. Il mondo del giornalismo d’inchiesta, attanagliato come è tra autocensure, voglia di non scontentare nessuno e poteri forti che all’occorrenza “non fanno un processo ma una caccia”. L’informazione è cambiata ed è un dato di fatto, ma fa un certo effetto sentire Dan-Redford dire: “C’era la fiducia del pubblico una volta, ti giuro che c’era”.
In Truth non c’è manipolazione della notizia, perché i giornalisti sono assolutamente in buona fede, semmai c’è la vulnerabilità di un mestiere dove l’errore è sempre dietro l’angolo. Ma qui c’è anche di più. La notizia diventa un ping pong tra i media, i blog e (oggi potremmo dire) i social. Le parole si trasformano in “parole d’ordine” a seconda del campo in cui rimbalza la palla. Il conformismo presente in ogni tempo, gli editori che devono proteggere l’azienda e i media che puntano l’obiettivo sull’apoteosi della non notizia, che fa spettacolo e magari sputtana anche i colleghi, sono mondi tra i quali non c’è dialogo o via d’uscita.
Ma è anche un film in cui i protagonisti hanno un passato e non per questo usano il giornalismo per fare i conti con esso e forse finanche un film per considerare la (rara) categoria dell’umiltà dell’informazione che, quando è necessario, può anche chiedere scusa per recuperare credibilità.
“Quando fai le domande, una parte o l’altra dirà che sei fazioso, ma se smetti di farle il popolo americano perde”. L’esortazione che Dan Rather rivolge al giovane Mike Smith è probabilmente l’esortazione rivolta a tutta la categoria a provarci ancora. Chissà.
Truth. Verità per verità, non sarà un film indimenticabile ma il pensiero non può non andare a Il Caso Spotlight. Il primo è una pellicola a tutti gli effetti sul giornalismo d’inchiesta, mai scontata, scorrevole e sorprendente, l’altro cavalca l’onda di un argomento sensibile come quello della pedofilia nella chiesa ma si trascina stancamente e chiunque abbia lavorato in una redazione di giornale non si riconoscerà in quel clima algido davanti allo scoop. La differenza è che Spotlight ha vinto l’Oscar, Truth no. Fate voi.
Truth: se il caso Spotlight va a rotoli
La storia vera di uno scoop rivelatosi una bufala, per un film che racconta i rischi del giornalismo d'inchiesta.