The Wasteland (titolo originale Dashte Khamoush) è uno dei due lungometraggi scelti per il concorso della sezione Orizzonti del Festival di Venezia 2020 provenienti dall’Iran. Opera seconda del non giovanissimo regista Ahmad Bahrami (classe 1972), ma a suo modo un debutto assoluto (il suo primo film del 2017, Panah, è ancora inedito), la pellicola è tra quelle rese disponibili in streaming in contemporanea con la 77. Mostra del Cinema sulla piattaforma digitale Festival Scope.
THE WASTELAND: DALL’IRAN UNA STORIA SPIETATA DI FATICA E IMPOTENZA
La storia di The Wasteland si svolge all’interno di un mattonificio in una località remota nel mezzo del deserto. Lotfollah è il sorvegliante della fabbrica ma ha anche l’importante ruolo di intermediario tra il padrone e gli operai. Un giorno il capo convoca Lotfollah per assegnargli un compito: quello di radunare i lavoratori per comunicare loro che la fabbrica chiuderà. Al nostro protagonista, arrivati a questo punto, interessa solo tutelare la sua amata Sarvar, una donna di cui è innamorato da tempo.
THE WASTELAND FA SUA NEL MIGLIORE DEI MODI LA LEZIONE DELLA SECONDA NOUVELLE VAGUE IRANIANA
Prendendo spunto dalla propria esperienza personale (il padre ha lavorato per trent’anni in fabbrica, come i personaggi del film), Ahmad Bahrami crea un film che si colloca nell’impostazione neorealista e a tratti sperimentale della cosiddetta ‘seconda nouvelle vague’ del cinema iraniano, quella post-rivoluzionaria. L’opera mette in risalto, oltre alle dure condizioni di lavoro, i soprusi e le ingiustizie subite da molti operai delle zone più remote dell’Iran.
Il regista, per fare questo, crea un microcosmo dagli equilibri fragili in cui convivono famiglie di etnie diverse (dai rapporti non sereni tra di loro), dove le giornate passano lente e monotone, quasi in modo meccanico (non casuale è la scelta da parte del regista, in determinate scene, di ripetere alcuni movimenti di macchina), senza che nulla possa minimamente cambiare. La tragedia umana dei lavoratori rappresentata da Bahrami, incarnata soprattutto dalla figura di Lotfollah, dimostra come la miseria generi inevitabilmente sudditanza nei confronti dell’autorità. L’unica ancora di salvezza è la famiglia, giacché chi non ha neanche quella è destinato a una fine avvilente – come sottolinea la conclusione del film con grande forza evocativa.
IL LINGUAGGIO CINEMATOGRAFICO DI BAHRAMI, SORPRENDENTE ED ELEGANTE
La regia di The Wasteland è stilisticamente ricercata: il suggestivo bianco e nero esalta l’ambientazione desolante (grande protagonista della pellicola) mentre degno di nota è l’uso delle lente carrellate, che a tratti seguono l’azione e a tratti se ne disinteressano – affidandola al solo comparto sonoro – per poi recuperarla di nuovo. Il passo incede letargico eppure l’alternarsi di carrellate, brevi piani sequenza e inquadrature statiche regala ritmo alla storia.
Certo, in alcuni frangenti la mano del cineasta tende a sovrastare il racconto, tuttavia le interessanti soluzioni visive adottate dall’autore iraniano sono in grado di coinvolgere lo spettatore dall’inizio alla fine. È in particolar modo la natura ricorsiva della pellicola a donarle carattere, con la medesima scena che viene riproposta numerose volte a cadenzare il racconto, ogni volta con punti di vista e movimenti di macchina diversi, per sottolineare lo sviluppo contemporaneo dei rivoli narrativi. Altro elemento dal forte valore iconico è quello di un raro e sofferto riposo, che gli operai ricercano e nel quale si rifugiano coprendosi di un lenzuolo bianco come fosse il sudario su un corpo morto.
Grazie anche alla recitazione estremamente naturale di tutti gli interpreti (il casting è stato eccellente), Bahrami con The Wasteland realizza in maniera impeccabile un ritratto estremamente sincero e feroce del sottoproletariato più povero e oppresso.