Dark – I segreti di Winden, produzione Netflix tedesca in 3 stagioni (2017-2020) ideata da Baran bo Odar e Jantje Friese, non è solo uno degli show più visti sulla piattaforma streaming di Los Gatos, ma è anche uno dei prodotti seriali con il più alto punteggio su aggregatori critici come Rotten Tomatoes e Metacritic.
DARK: LA SERIE NETFLIX TRA PARADOSSI RELATIVISTICI ED ETERNO RITORNO
L’idea di partenza di Dark è semplice: una quieta cittadina tedesca (Winden) con una centrale nucleare, bambini che scompaiono nei boschi propri nei pressi di una misteriosa caverna, un suicidio inatteso e molti (a volte anche troppi) viaggi nel tempo. Il protagonista Jonas (Louis Hoffman) è l’anello di congiunzione inter-temporale destinato a risolvere i “misteri di Winden”. Dietro quest’idea da thriller sci-fi si cela un universo narrativo ben più complesso.
La trama è notevolmente intrecciata per poterla pienamente tratteggiare, e sarebbe comunque deturpante renderla in forma scritta, più di quanto potrebbe fare un montaggio studiato ad hoc e che, utilizzando la forza del concetto-immagine, mira a rendere il senso e il valore del paradosso temporale e che neanche la hegeliana fatica del concetto riuscirebbe dignitosamente a restituire.
Nella ormai imperante produzione filmica (e seriale) che si focalizza sulle teorie scientifiche quanto-relativistiche, quindi sulla indiscriminata possibilità di universi paralleli, di paradossi temporali, movimenti e contro-movimenti cronotopici, Dark si presenta come un inno aperto alla concezione ciclica del tempo e, ancora di più, alla teoria dell’eterno ritorno nietzschiano, evidenziandone le tragiche implicazioni etiche.
DARK E I SUOI PRECEDENTI CINEMATOGRAFICI
Il soggetto di Dark raccoglie un insieme di situazioni-limite già messe in scena nel teatro dell’assurdo e aperto dalla fisica relativistica post-newtoniana: c’è stato Zemeckis con la trilogia di Ritorno al futuro e Contact (1997), poi il filone nolaniano (tranne Tenet) con Interstellar in pole position, il minore Coherence del 2013 con James Ward Byrkit, fino ad arrivare a A Ghost Story (2017) di Lowery che apre lo scenario relativo alle conseguenze dell’eterno ritorno sull’esistenza individuale.
Tutte sceneggiature intrecciate e ben elaborate che hanno sfruttato il paradosso della fisica, per rendere con la potenza dell’immaginario ciò che solo asettiche formule di una matematica avanzata possono mostrare a pochi adepti del settore. Tutti i registi citati hanno dato ampia prova di riuscire a destreggiare i paradossi e, seppure in alcuni momenti con fatica, vi riesce anche Odar; e lo fa aprendo lo spazio a una metafisica del tempo che conferisce ampio respiro a disquisizioni filosofiche, a buona ragione contorte – seppure altamente “seguibili” – grazie alla strutturazione di un montaggio complesso ma funzionale, tranne qualche pesante flop nella terza stagione.
LA FISICA E L’ETICA DELLA TEMPORALITÀ: LE ‘CAVERNE NIETZSCHIANE’
Dark funziona perché è un’opera polisemica, una narrazione che si apre con un numero vasto di possibilità interpretative, ma che le fa convergere adeguatamente – per una sorta di decoerenza quantistica – verso una lettura univoca, pur salvaguardando la soggettività dello spettatore grazie a sequenze e dialoghi che godono della giusta pluristabilità. A questo si accostano ricorsività narrative con straordinari foreshadowing che utilizzano come sottofondo le canzoni e le musiche minimaliste di Ben Frost.
Ciò è reso possibile grazie a un sano intreccio tra il tema della ciclicità temporale e quello della scelta, in cui la lotta polarizzata è mantenuta grazie alla connotazione morale della performatività dell’atto che ha una resa sapiente sulla teoria degli universi paralleli (esperimento già visto sia in Sliding doors di Kieślowsk del 1998, sia in Mr. Nobody di Van Dormael del 2009).
I personaggi della cittadina tedesca di Winden, costretti in una prigionia di nodi temporali, devono affrontare pesanti scelte etiche e scheletri personali in un quadro da predestinazione che pare non lasciare scampo alla libertà dell’arbitrio. Non è un caso che le “caverne di Winden” – luogo mistico in cui si trovano i tunnel temporali tramite cui è possibile spostarsi avanti o indietro nel tempo di 33 anni – in tedesco si rendano con la locuzione “Windener Hölen” assonante al verbo ben noto a Nietzsche “wiederholen” che si traduce, appunto, con “ripetere”.
L’EFFETTO FARFALLA SU UN PIANO CICLICO
In questa eterna ripetizione dell’identico, il ruolo di ogni personaggio è essenziale perché venga rispettato il meccanismo cosmico che porta alla ripetizioni e alla riaffermazione di ciò che è e che deve essere. Ognuno, nella cura domestica del proprio io, è anche chiamato alla responsabilità dell’esistenza dell’ordine del mondo, poiché anche un piccolo, singolo gesto può modificare completamente il corso delle cose aprendo la strada a universi possibili. Questo è un altro tema fortemente presente in film come The Butterfly Effect del 2004 e suoi sequel, che rievocano l’omonimo effetto farfalla oggi ampiamente diffuso nei giochi interattivi per console come Life is Strange o in lungometraggi sperimentali come lo Bandersnatch di Black Mirror (2018). Così, Dark – senza grandi pretese sistematiche di carattere filosofico – diventa un trattato sulla metafisica dell’atto etico.
DONNIE DARK(O): IL TRIBUTO DI ODAR
Con il film di Odar, si è di fronte al collasso fra il caso e la necessità, fra la preservazione del libero arbitrio e la dottrina della predestinazione. Lo spazio della narrazione si dilata nel tempo, verso stati di singolarità che determinano il collasso spazio-temporale in eventi apocalittici. Qui torna con forza l’inesauribilità interpretativa di Donnie Darko (Kelly, 2001) a cui Odar probabilmente deve molto (anche il riferimento al titolo che ripropone la parola “Dark”) e dove i temi delle coincidenze significative, degli universi paralleli, dei paradossi temporali, dei viaggi nel tempo, dell’intreccio speculativo fra fisica e filosofia ha donato al cinema un film dalla potenza narrativa non indifferente, di una fascinosa bellezza generata dalla sottile linea comprensibilità-incomprensbilità su cui il film di Kelly va a collocarsi.
L’ETERNO RITORNO DELL’IDENTICO E L’ATTO ETICO
Seppure la confusione regni sovrana nella terza stagione di Dark e il montaggio diventi eccessivamente rapsodico costringendo lo spettatore a uno sforzo non indifferente – ma che comunque è disposto a fare per seguire fino in fondo lo sviluppo dei personaggi e della storia – questo terzo momento apre un’interessante parentesi tematica.
Come si diceva, infatti, la terza stagione mostra la possibilità di un’alternativa al fianco dell’eterno ritorno, avanzando l’idea di un indeterminato numero di realtà potenziali che si aprono in base alle singole scelte dei personaggi (la teoria dell’interpretazione a molti mondi della realtà di Hugh Everett III). Narrazioni, storie, “io” paralleli che stanno a confine con il mondo della fisica, proprio come in Dark sottile è il confine tra la metafisica e la fisica del tempo resa da una forma di speculazione filosofica concretizzata solo grazie all’impatto efficace di quell’immagine-tempo che rende il senso del paradosso.
Gli universi possibili, dunque, avvicinano la terza stagione di Dark più all’indeterminismo della quantistica che al determinismo della relatività – e forse anche per questo diventa più ingestibile l’intreccio di linee narrative. Quando subentra l’idea della multilinearità narrativa, dei mondi paralleli, Dark – nonostante si complichi abbastanza – riesce a garantire la complessità di una posizione filosofica, di una visione che tiene insieme determinismo e indeterminismo, seppur sempre vincolati da una concezione del tempo essenzialmente circolare.
Qui, il soggetto non è più persona che conferisce senso al corso della storia, non è più autore, narratore, attore, ma solo uno spettatore inerme degli eventi che, irrimediabilmente, rischiano di definirne un’irresponsabile e recidiva essenza.
Qui si colloca la tragica verità del tempo, quella professata dal nano nietzschiano in Così parlò Zarathustra «Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine… Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E questa lunga via fuori della porta e in avanti – è un’altra eternità». La verità del tempo ciclico, in cui passato e futuro ci congiungono, sta proprio in ogni momento di questa congiunzione, ossia nell’attimo, in quell’eternizzarsi del hic et nunc in cui si dispiega la soluzione, e quindi la fuoriuscita, dalla maledizione del tempo: l’atto etico. Quell’atto che tutti i personaggi di Dark – emblema degli uomini tragici che subiscono la condanna dell’esistenza – sono chiamati a operare, perché possano ritrovare la loro giusta collocazione cosmico-storica svolgendo il ruolo a essi assegnato, senza essere più risvegliati dal demone che turba la coscienza nella intempesta nox.
Se, dunque, Dark sottolinea il valore dell’eterno ritorno e il paradosso temporale nella loro costitutiva irrisolvibilità, allo stesso tempo salva il soggetto morale che è comunque chiamato alla responsabilità dell’atto nel presente, nonostante la vanificazione etica messa in atto della ciclicità temporale.