Ammortizzato immediatamente da quel cuscinetto di salvaguardia e spesso abusato che campeggia sullo schermo a inizio proiezione con “questo film è ispirato ad una storia vera”, il Padrenostro di Claudio Noce è un lavoro confuso che tradisce, e si tradisce, ripetutamente nel corso del suo tentativo di fondere l’incidenza di un trauma alla malleabilità dell’età fanciullesca. Il film, presentato al Festival di Venezia 2020 e valso la Coppa Volpi al protagonista Pierfrancesco Favino, è disponibile in home video CG Entertainment.
Padrenostro è un confuso percorso di elaborazione fanciullesca
Presente in concorso al Festival di Venezia 2020, è sì vero che la pellicola trae spunto e sceneggiatura (scritta da Noce ed Enrico Audenino) da un fatto non solo reale ma di stampo anche autobiografico, rifacendosi infatti al rapimento del vicequestore Alfonso Noce, padre del regista, da parte dei Nuclei Armati Proletari avvenuto nel 1976 e durante il quale persero la vita un agente di polizia e un terrorista. Altrettanto vero è che la trasposizione di questo terribile evento assume nel film i contorni sbiaditi di un dramma infantile, narrato a partire dalla vertigine delle prime due decine di minuti che del “padrenostro” ha l’appropriazione di uno sguardo incombente dall’alto e presto dimentiche di mantenere una tonalità uniforme nel corso del suo sviluppo.
Poi lo scrutare, il cercare di scardinare una verità dai dettagli è quello di un figlio che ha assistito non solo alla sparatoria dove è rimasto gravemente ferito il padre, figura vanescente, auratica, ma anche alla lenta morte di uno degli attentatori. Qui scatta qualcosa, dove al lento insinuarsi di uno shock sopito sottopelle corrisponde anche l’aumento di un carattere registico a tratti ossessivo nel focalizzare l’attenzione rimanendo incollati al volto del piccolo Valerio, in un abuso di carrelli e zoom in & out che nel loro essere così pressanti non permettono, purtroppo, al giovane Mattia Garaci di riuscire a sostenerli con la sua interpretazione.
Uno sforzo di ripetuta ricerca dell’emozione intensa tramite primi e primissimi piani che si reitera per buona parte del film e che conduce rapidamente all’asfissia.
Claudio Noce dimentica di puntare all’emozione
Se da una parte un mai realmente sviluppato rapporto padre-figlio dovrebbe essere il motore di Padrenostro, è nella costruzione dell’espressione esteriorizzata del trauma vissuto che vengono mossi i fili del discorso, declinata in quello che un perenne atto di depistaggio vuole far passare prima per la fantasia di un bambino scosso, subito dopo per una realtà sfumata, restando nel range di un’ibridazione che non fissa mai (nemmeno nel finale) i paletti ai quali rifarsi per interpretare ciò che si sta osservando. Non si questiona la scelta di non fornire coordinate precise, di per sé legittima, si questiona piuttosto il modo in cui queste vengono sfruttate furbescamente nell’annacquare in particolare la presenza di un personaggio fondamentale del film ai fini di renderlo attraente e concettualmente mobile, quello del Christian di Francesco Gheghi, che è un selvatico Lucignolo emanazione (forse) dell’estro dormiente e spezzato di Valerio.
Noce scavalca le transenne che separano le corsie e trascina ricordo, immaginazione e realtà tutti all’interno della stessa scatola, interscambiandole a piacimento e con netta forzatura filmica lesinando sull’unica cosa che in un film come Padrenostro dovrebbe realmente contare: il sentimento.