Difficile comprendere il valore da affidare a Mosquito State, l’opera fuori concorso al Festival di Venezia 2020 di Filip Jan Rymsza, che è tornato al Lido dopo aver prodotto nel 2018 The Other Side of The Wind e che oltre al film di cui è regista sempre nella stessa edizione si ripresenta nella veste di produttore con Hopper/Welles.
Al netto di alcune buone intenzioni che pervadono la pellicola, Mosquito State barcolla su di uno statuto ballerino dalla forte impronta metaforica, mai realmente capace di sospingere le volontà del regista in un disegno di sufficiente chiarezza.
Mosquito State è un film che non conosce la sua natura
La prima parola pronunciata dal protagonista Richard Boca (Beau Knapp), impiegato in una società di trading nella New York del 2007, è “teatro” e di questo il film possiede senza dubbio il setting che accompagna l’ora e mezza della proiezione tra i gli ambienti asettici dell’appartamento dell’analista e degli uffici della compagnia. Spazi che appaiono come teatri di posa calibrati al millimetro per dare il via al sacro rito della rappresentazione, ripresi attraverso l’ausilio di una regia che assolve al ruolo di incubatrice di uno svolgersi dell’azione che non trova mai il momento in cui schiudersi davvero, rimanendo troppo a lungo sopito nello stato di una pallida larva.
Di teatrale c’è certamente anche l’interpretazione del protagonista, che tra la creazione di un algoritmo e l’altro in grado di calcolare il valore delle azioni e degli spostamenti del mercato, inizia a frequentare anche una giovane donna (Charlotte Vega) mai davvero posta fecondamente all’interno di una narrazione alla quale piace perdersi in modo sadico tra cifre, percentuali, variazioni di curve di mercato.
Filip Jan Rymsza non trova il punto di uno script vacuo
Lo script di Rymsza si sposta in tutti gli angoli del film senza mai afferrare un concetto da poter offrire come portata principale, mascherando la crescente e ingiustificata ossessione di Boca nel nutrire e accudire un’intera nidiata di zanzare un po’ in un’allegoria che accarezza la pompata e falsata finanza della Wall Street pre-crollo del 2008, un po’ nel rapporto uomo-donna, un po’ ancora non si sa bene dove.
Sia chiaro, Mosquito State non è un film horror e non mira nemmeno mai ad esserlo, come allo stesso tempo non permette di essere apprezzato per nessuno degli altri spunti che lancia all’interno del calderone e decide di non coltivare fino in fondo. In definitiva, resta di apprezzabile la costruzione degli ambienti (a cura di Anna Marzeda) degna più di una pièce teatrale che di una trasposizione cinematografica così parziale nel saperli riempire, e di una fotografia (nelle mani di Eric Koretz) a tratti troppo pretenziosa ma che riesce comunque a lavorare bene sulle esaltazioni cromatiche che, quantomeno, riescono a salvare il colpo d’occhio.