Il titolo di Gaza Mon Amour, che fa eco al capolavoro di Alain Resnais Hiroshima Mon Amour, ci fa subito capire che il secondo lungometraggio dei gemelli palestinesi Tarzan e Arab Nasser – presentato nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia 2020 e disponibile in streaming nella Sala Web di Festival Scope – ci vuole portare in quella zona cinematografica dove si incrociano amore e guerra; solo che al posto di Hiroshima questa volta c’è Gaza, la città più popolosa di quella striscia di terra schiacciata tra l’Egitto, Israele e il mare mediterraneo.
GAZA MON AMOUR: IL PESCATORE E LA SARTA
Qui vive anche il sessantenne Issa (Salim Daw), scapolo e pescatore, segretamente innamorato della vedova Sihan (interpreta da Hiam Abbass la Freysa di Blade Runner 2049), che lavora come sarta al mercato e che a sua volta vive con una figlia divorziata. Timido, incapace di dichiarare il proprio amore e assediato da una sorella petulante che gli rinfaccia il suo stato da celibe, Issa – come se non bastasse – un giorno si ritrova fra le reti da pesca una statua greca di un Apollo nudo e con il membro in erezione. Questa scoperta complicherà ulteriormente un quotidiano passato fra cucinare pesce, ascoltare canzoni d’amore e provare a conquistare Sihan, attraverso improbabili strategie di avvicinamento verso la donna. Detto così, il film dei fratelli Nasser pare una commedia tenera e grottesca, e a tutti gli effetti lo è. Ma dietro ad una (apparente) semplicità di intenti, si nasconde in realtà un contesto profondamente politico che gli autori suggeriscono (senza mai renderlo “ingombrante”) durante tutta la pellicola.
I FATELLI NASSER E IL ROMANTICISMO COME SOVVERSIONE
La città di Gaza Mon Amour è infatti ritratta come un territorio devastato e senza speranza: l’economia stagnante, la corruzione del governo, l’assedio e i missili dell’esercito israeliano. C’è insomma l’impossibilità di costruire un futuro, ben evidenziato dalla volontà delle nuove generazioni di andarsene, fuggire in Europa e lasciarsi dietro una comunità di profughi e macerie che è ormai è diventata solo un fantasma di se stessa. L’unica anomalia in questo inferno in terra è appunto lo slancio affettivo del vecchio pescatore verso la sarta e che assume, al di là della vicenda personale, un significato che investe tutta la collettività del popolo palestinese. Non solo nell’ostinazione con cui Issa tenta di dichiararsi e sposare Shiam, quasi contasse solo questo per vivere e avere un futuro felice (anche) a Gaza; ma soprattutto per i modi con cui Issa persegue questo suo obbiettivo. La sua vulnerabilità, la sua gentilezza, il suo romanticismo d’altri tempi: sono quei valori, sembrano dirci i fratelli Nasser, che i palestinesi hanno perduto per strada. E dopotutto la stessa idealizzazione della figura femminile che insegue Issa ha le sembianze di un altro tassello furbescamente sovversivo nella Gaza governata dagli ultraortodossi di Hamas e in cui le donne non se la passano proprio benissimo.
GAZA MON AMOUR FRA JARMUSCH, KAURISMAKI E SULEIMAN
Ecco, Gaza Mon Amour funziona bene perché è capace di dosare questi momenti fra il politico e il sentimentale in modo talmente sottile che quasi il confine è destinato a scomparire. Il segreto è tendere (e sospendere) questa corda che divide due mondi: quello della stralunata vicenda di Issa che ci fa sorridere e sospirare e quello (reale) della striscia di Gaza, tra una sgangherata manifestazione di Hamas e la battuta di un dirigente governativo che accusa uno storico di blasfemia quando osa parlare di “Dio Apollo”. Insomma, da una parte lo slancio, il sogno, il futuro; dall’altra la Gaza stritolata fra l’integralismo religioso e le imposizioni di Israele, in cui perfino il mare è lungo “solo 5 chilometri” perché oltre diventa territorio israeliano. Nel camminare in equilibrio su questa corda e fra questi due mondi gli autori pedinano il loro Issa nei piccoli gesti e nelle piccole abitudini quotidiane, attingendo a dei minimalismi che ricordano un certo cinema occidentale, quello di Jim Jarmusch e di Aki Kaurismaki, ma senza fare a meno di rifarsi anche agli immaginari non-sense di un altro regista palestinese molto bravo come Elie Suleiman (quello di It Must Be Heaven). Il tutto, c’è da dirlo, con delle interpretazioni azzeccatissime, su tutti proprio quella di Salim Daw, che si muove con la splendida goffaggine di un sessantenne alle prese con una cotta dal sapore adolescenziale.
Solo nel finale i fratelli Nasser portano all’estremo questa contaminazione tra chimera e realtà, mostrando una doppia chiusura del film: la prima tenera e dolcissima, la seconda quasi surreale e straripante, che rompe gli argini e la frontiera della stessa striscia di Gaza. Scavalcando perfino quel mare, lungo “solo cinque chilometri”. L’amore (come la satira) non ha confini.