Intenzionato a saettare dalle parti di un cinema politico, o meglio che del politico vuole fare il sottotesto fondante la sua ragion d’essere, Laila in Haifa dell’israeliano Amos Gitai non riesce a scrollarsi di dosso la mantella di film pretenzioso che vortica e vortica senza affondare mai il colpo.
Il cinema politico di Amos Gitai è un buco nell’acqua
Il bar di Laila (Maria Zreik) cura un’esposizione della rassegna fotografica dell’artista israeliano Gil (Tsahi Halevi), interessato più alla resa sociale della sua opera che al ritorno economico, tratteggiato come sorta di emanazione cinematografica dello stesso Gitai, da sempre critico e scettico dell’opera di governo del suo Paese di nascita. Il locale non impiega molto tempo a porsi come uno spazio dai caratteri idealistici e metafisici che richiamano la cristallina volontà di rendere l’oggetto filmico della mostra d’arte impegnata di Laila in Haifa come sovratesto stesso della pellicola, utilizzata a vetrina di una girandola di personaggi che interagiscono e scambiano opinioni nel pieno stile delle installazioni artistiche contemporanee.
Lo script del film presentato nella selezione ufficiale del Festival di Venezia 2020, curato dal regista assieme a Marie-José Sanselme, però traballa e non riesce a reggere a lungo la declinazione da pièce teatrale a cardine di interpretazioni lasciate libere di riconoscersi da sé in quanto tali e dalle quali la maschera ruzzola via, spunti puntellati ai piedi di un’impalcatura timorosa di non stimolare a sufficienza chi assiste sul piano della sensibilizzazione e per questo colpevole di scivolare rapidamente in uno sfiancante didascalismo.
A Laila in Haifa non basta il tema per convincere
L’intero film si configura seguendo lo schema dell’incontro tra due ragioni divergenti che non trovano la dimensione all’interno della quale potersi fecondare e aderire a vicenda, alla base delle quali si pone il bianco e nero degli attriti israeliano-palestinesi che si riflettono su un po’ tutti i personaggi che incontreremo in questo club della chiacchiera. Può rimanere interessante il modo in cui Gitai decide di aprire e chiudere su queste marionette dalla battuta pronta tramite un’azione di focalizzazione che sfrutta la forza degli zoom per prendere e togliere dall’inquadratura, in un lavoro di evidenziazione che trae direttamente dal ruolo che spetta al fascio di luce sul palco teatrale nel concedere la parola a questo o quell’altro degli interpreti.
In ogni caso resta e non se ne va la sensazione di assistere a degli scambi che posseggono il sapore stantio di un preconfezionamento che svilisce il ruolo del portato sociale che il regista tiene a sottolineare in maniera così incisiva, imboccato e bloccato in binari a linea retta che percorrono tutti gli step ideali di un sentiero senza dubbio impervio e spinoso ma tratteggiato con toni da tesina di terza media.