Dopo una lunga serie di film e di successi nel mondo tutto nipponico del j-horror, Kyoshi Kurosawa approda per la prima volta nella sua carriera alla Mostra d’Arte Cinematografica del lido veneto in occasione del Festival di Venezia 2020, partecipando al concorso ufficiale con il suo ultimo lavoro Wife of a Spy (in originale Supai no tsuma).
Kyoshi Kurosawa alla regia di una spy-story dai connotati televisivi
Siamo a Kobe, in un Giappone che nel 1940 si lega sempre di più alla Germania nazista e all’Italia fascista, pronto per approdare in quel triplice patto di alleanza che condurrà l’isola asiatica ad entrare nella Seconda Guerra Mondiale al fianco dell’Asse. Yusaku (Issei Takahashi) e Sakoto Fukuhara (Yū Aoi) è una coppia di coniugi che nasconde un segreto, una documentazione recuperata dal marito durante un viaggio d’affari e che cela le informazioni delle abominevoli sperimentazioni mediche che l’esercito giapponese sta compiendo sugli abitanti colonizzati della regione cinese della Manciuria.
Le tinte dello script elaborato dal regista con l’ausilio di Ryūsuke Hamaguchi e Tadashi Nohara sono quindi quelle di una spy story che trae a piene mani dal cinema di genere statunitense del periodo del cinema classico, muovendosi all’interno degli stilemi tipici di uno sfondo noir che avvolge la composizione drammaturgica del testo. Quello portato avanti da Kurosawa è in realtà un lavoro da perfetto mestierante che trasuda mediocrità da ogni poro – non a caso Wife of a Spy è un prodotto confezionato appositamente per essere distribuito sui canali tv nipponici (dove è stato trasmesso per la prima volta il 6 giugno) e non per ambire alla sala.
Wife of a Spy è un prodotto mediocre e non da festival
Ogni singolo aspetto dell’impianto cinematografico è elaborato con coscienza della destinazione finale del film e perciò appiattito verso uno standard estremamente basso, dalla scrittura che contorna i suoi personaggi con toni melodrammatici in grado di svilire i propri interpreti con linee di dialogo ai limiti dell’imbarazzo («mi sento così stupida»), fino ad arrivare ad una fotografia (esordio per Tetsunosuke Sasaki) patinata che punta ad utilizzare la luce come fonte di sfumatura dei bordi di qualsiasi elemento piazzato all’interno dell’inquadratura. Basta guardare la mancanza di trasparenza delle (molte) finestre che compaiano all’interno del film e dalle quali filtra l’abbagliante luminosità dei fari di scena per smascherare la natura posticcia dei teatri di posa di una pellicola che si attesta, anche per qualità della costruzione di interni poveri e scarsamente decorati, sul livello di un programma da seconda o addirittura terza serata.
Appurata quindi la sostanza stantia di un lavoro in cui Kurosawa non fa davvero di nulla per apportare una vena di autorialità che sembra oramai abbandonata per strada e che di conseguenza depotenzia il portato di un nome un tempo abbastanza rinomato, ciò che lascia perplessi è che Wife of a Spy si trovi a concorrere all’interno della selezione ufficiale di uno dei più importanti festival cinematografici al mondo che, in questa circostanza, sembra aver pescato nel mare del Giappone un granchio grosso come una casa.