In competizione per il Leone d’Oro nel 2016 con Spira Mirabilis, Martina Parenti e Massimo D’Anolfi sono tornati protagonisti al Festival di Venezia con Guerra e Pace, documentario presentato nella sezione competitiva Orizzonti e reso disponibile in contemporanea in streaming su Festival Scope. Ora il film arriva finalmente al cinema, distribuito dal 24 maggio a opera di Istituto Luce Cinecittà. Dopo aver esplorato il significato del concetto di immortalità e rigenerazione, i due registi milanesi hanno deciso di ripercorrere l’ultracentenaria relazione tra cinema e guerra. Suddiviso in quattro capitoli – passato remoto, passato prossimo, presente e futuro – il documentario accende sì i riflettori sul senso della storia e sulle conseguenze dei conflitti, ma soprattutto sull’importanza della memoria.
Guerra e Pace fa luce sulla connessione tra la settima arte e la guerra, partendo dal 1911 – dall’invasione italiana in Libia – e arrivando ai giorni nostri. Dallo sbarco dei primi giornalisti a Tripoli ai conflitti a portata di click, dalle riprese in bianco e nero di inizio Novecento alle immagini di oggi girate con gli smartphone. Ma non solo. Il lavoro di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi racconta minuziosamente l’evoluzione della guerra, una narrazione resa possibile da quattro importanti istituzioni europee come l’Istituto Luce di Roma, l’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri Italiano, l’Ecpad (Archivio Militare e Agenzia delle Immagini del Ministero della Difesa Francese) e la Cineteca Svizzera di Losanna. Quattro luoghi di pace, dunque, per ripercorrere la violenza delle ostilità. La vita per non dimenticare la morte.
GUERRA E PACE, IL CINEMA DIVENTA UN ARCHIVIO
Guerra e Pace è una riflessione sulle immagini, sull’importanza che rivestono in chiave passata ma soprattutto futura. Passiamo infatti dal restauro delle pellicole della guerra in Libia alla palpitante attività dell’Unità di Crisi nostrana, fino alla formazione dei giovani militari-“registi” e alla conservazione degli archivi della Croce Rossa Internazionale.
Come già evidenziato, il legame tra cinema e guerra è fortissimo e la sfida che si sono posti i due registi meneghini è quantomeno accattivante: raccontare i conflitti come possibile strumento di pace. Il cinema diventa un archivio, c’è tantissima guerra ma raccontata da luoghi di pace. In altri termini, narrare questo nesso da un punto di vista diverso rispetto a quello quotidiano, legato anche ad una comunicazione ipertrofica.
Guerra e Pace consente allo spettatore di accedere a spazi poco noti, se non mai conosciuti in precedenza, basti pensare all’Unità di Crisi, intravista magari di sfuggita nel corso di un servizio di un tg. Oppure l’Ecpad, la scuola dei mestieri dell’immagine per i soldati transalpini, dove si passa da un’esercitazione fisica all’analisi de La resa di Breda di Diego Velazquez. Un lavoro senza artifici, con elementi narrativi ed espressivi colti direttamente dalla realtà. Un vero documentario, semplicemente.
GUERRA E PACE, IL SALTO DI QUALITÀ DI PARENTI-D’ANOLFI
In Guerra e Pace troviamo inoltre un’interessante analisi sull’evoluzione della comunicazione e sul valore del cinema, o più in generale delle immagini. Le riprese del 1911 sono totalmente diverse rispetto a quelle di oggi non unicamente dal punto di vista qualitativo. I pochi filmati a disposizione sulla guerra in Libia non sono stati girati in momenti di battaglia, ma di pace. I militari guardano in direzione della macchina da presa – tutto studiato a tavolino – mentre i bambini vengono utilizzati come “pubblicità”. Senza dimenticare che la guerra incrocia il cinema nella sua piena maturità, con fior fiori di produttori pronti a investire. Insomma, uno scenario notevolmente diverso rispetto ai giorni nostri, tra l’avanzare della tecnologia e l’assenza di “filtri”: oggi – pressochè quotidianamente – ci ritroviamo a fare i conti con le immagini di cadaveri, di mutilati, di attentati e così via.
Privo di voce narrante ed a tratti non perfettamente amalgamato, Guerra e Pace allaccia materiali/documentazioni e forma cinematografica, un po’ sulla falsariga di Frederick Wiseman. Particolarmente potenti le sequenze girate presso l’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri, mentre c’è da registrare una prolissità a cavallo tra il terzo e il quarto capitolo. Martina Parenti e Massimo D’Anolfi compiono un deciso salto di qualità rispetto a Spira Mirabilis e vanno a collocarsi tra i documentaristi più interessanti del panorama italiano.