Esordio alla regia per Pietro Castellitto, figlio del regista Sergio, I predatori è un film che apre a un ironico ventaglio di personaggi e stereotipi sociali, presentato nel concorso della sezione Orizzonti del Festival di Venezia 2020.
I Predatori è l’esordio alla regia di Pietro Castellitto
Medici, professori universitari, traffichini e criminali di provincia sono i protagonisti di una tavola apparecchiata all’insegna dell’esilarante, dove ognuno è espressione di varie sfumature di poli sociali agli antipodi ma proprio a causa di questo riconosciuti simili tra i vari tic e ossessioni nascosti sotto il velo del conto in banca e della macchina parcheggiata nel vialetto. Il maggior pregio da riconoscere sin da subito a Castellitto è quello che risiede nella decisione di partire in quarta con un film nutrito di colori sulla tavolozza, carico di una pimpante sfera demenziale che volge in alcuni momenti al grottesco di alcuni degli stereotipi che mette su schermo.
Fondamentale è quindi la direzione di un cast molto ampio (da Massimo Popolizio a Manuela Mandracchia, Giorgio Montanini e Dario Cassini, passando per lo stesso Pietro Castellitto), sicuramente ordinato, in palla e divertito nella prima parte di un film che viene sorretto per i suoi tre quarti dalle interpretazioni che si alternano di continuo in un frenetico scambio di scene una dopo l’altra, spesso troppo repentino ma quantomeno funzionale a mantenere il ritmo infuocato della natura da sketch della quale I predatori va, forse involontariamente, a ricercare.
Pietro Castellito ha del potenziale
È probabilmente proprio il personaggio di Castellitto quello meno accattivante e più costruito per andare a calcare la mano dalle parti della macchietta, chiave di volta degli eventi in più di un frangente fastidiosa e in un crescente overacting al quale affida il proprio portato ironico slegandosi troppo dalla coerenza di un demenziale che si pone a superficie primaria del film. Invece sono tocco di classe l’apertura e la chiusura all’insegna della piccola parte assegnata a Vinicio Marchioni, capace di suggellare l’inizio e la fine di un cerchio che gira un po’ a vuoto nel corpo centrale, anche a causa delle leziosità di una regia ballerina e poco uniforme evidentemente (e per forza di cose) acerba e alla ricerca di una specifica visione nella quale riconoscersi.
La natura da vignetta de I predatori regge per circa i due terzi del film e sembra comunque manifestare alcune difficoltà nel procedere a causa della mancanza di un occhio vigile nel sorreggere lo script scritto sempre da Castellitto, per poi cercare di darsi uno slancio verso l’alto in un’ultima frazione che nelle intenzioni tenta di trovare una quadra dai caratteri non proprio moralistici, ma quantomeno sferzanti nel cucire assieme quei due estremi la cui resa effettiva della circolarità viene sciupata e sgonfiata di un potenziale satirico sul quale aveva provato a costruire l’intero impianto del film.