L’attrazione in grado di suscitare l’argomento legato alla psicologia e psichiatria criminale è indubbia. Basti pensare ai molti film e serie tv che ne sono state tratte (due a caso sulla piattaforma di streaming Netflix, la fiction Mindhunter e Conversazioni con un killer: Il caso Bundy), alle quali si unisce il documentario Crazy, Not Insane prodotto e diretto da Alex Gibney.
La dottoressa Dorothy Lewis è protagonista di Crazy, Not Insane
Portato al Festival di Venezia 2020 come fuori concorso, il lavoro del regista statunitense segue gli studi compiuti nel corso dei decenni dalla dottoressa Dorothy Lewis, tra le pioniere dell’approccio psichiatrico da applicare ai criminali pluriomicidi detenuti per delitti orrendi ed efferati. Il documentario percorre l’evoluzione nel corso degli anni della carriera della Lewis, scendendo nei meandri più torbidi degli incontri che la dottoressa ha avuto modo di documentare tramite materiale audio e video in grado di testimoniare quella che è la sua personale esperienza con oltre ventidue tra assassini e aspiranti tali.
Un sentiero tracciato a partire dalle dichiarazioni in prima persona proprio della Lewis, il cui sorriso e anche curioso divertimento scandiscono il tentativo di mantenere lucidità nel mezzo di quella che è la ricostruzione, tassello per tassello, dei primi passi, delle prime lotte e delle prime cadute di una carriera tanto ricca di scoperte quanto inquietantemente intrisa delle brutture della vita. Il filo conduttore è la strenua lotta che la dottoressa ha dovuto portare avanti per affermare l’approccio metodologico e scientifico a ragione scatenante dietro una concezione del male considerata in alcuni individui innata, in una stoica e testarda concezione, anche e forse soprattutto all’interno della stessa comunità medica, dalle sfumature quasi animistiche.
Alex Gibney firma un documentario torbido e oscuro
Nel voice over di accompagnamento del racconto affidato a un’interprete di eccezione come la novella premio Oscar Laura Dern, le tappe sono scandite dai passaggi effettuati tra le aule di tribunale e le celle delle prigioni dove la Lewis scava per far emergere i disturbi psichici e di personalità di individui che sotto la superficie nascondono in molti casi storie di abusi e di traumi sepolti e nascosti nel subconscio e nelle scissioni dell’Io.
La carne al fuoco è davvero molta perché estremamente densa è la discussione che si vuole mettere in ballo in un documentario che sfiora le due ore di durata e che presenta un teatro degli orrori tanto oscuro quanto affascinante, a partire dall’analisi di casi minori fino ad arrivare allo scontro con realtà più note e narrate proprio come quella di Ted Bundy, pronto a non escludere uno sguardo da lanciare anche dall’altra parte della barricata, in chi legittimato dalla legge preme la leva della sedia elettrica ma si ritrova con lo stesso, identico occhio vitreo di chi su quella sedia è seduto.