A quattro anni di distanza dalla vittoria del Leone d’Oro per il meraviglioso The Woman Who Left – La donna che se ne è andata, Lav Diaz ha fatto ritorno al Festival di Venezia – questa volta in concorso ad Orizzonti, dove ha vinto il premio per la miglior regia – con il suo nuovo lavoro, Genus Pan (Lahi, Hayop), proposto in contemporanea in streaming su Festival Scope. Un film di “soli”157 minuti ma che riassume i cardini del suo stile filmico.
Il film racconta il destino di tre minatori – Andres, Baldo e Paulo – desiderosi di tornare a casa dalla loro famiglia. I lavoratori, alle prese con difficoltà economiche, intraprendono un viaggio nella foresta per tentare di conservare quei pochi spicci non ancora estorti dalle autorità corrotte, ma nella natura selvaggia dell’isola di Hugaw aleggia un antico maleficio. Con il trascorrere del tempo le tensioni tra i tre aumentano…
GENUS PAN, LA FAVOLA NERA DI LAV DIAZ
Genus Pan è una favola nera, una allegoria infelice sulla natura animalesca dell’uomo. Lav Diaz ritorna senza filtri, un film radicale come la sua poetica. Dal lungo prologo dedicato alla terra capiamo bene la strada intrapresa dal maestro filippino, che attraverso la storia di questi tre muratori continua la sua indagine sulla natura umana e, più in generale, sulla natura dell’intera società filippina.
I tre protagonisti iniziano questo viaggio nella foresta per evitare che le autorità dell’isola chiedano loro ulteriori soldi, impoverendo ancora di più già misero stipendio, ed è impossibile non pensare ad una denuncia contro la corruzione della società filippina, questa volta integrata nella narrazione. Non mancano inoltre i passaggi in cui emerge una grande frustrazione per le inumane ingiustizie subite dai poveri, con il dittatore Rodrigo Duterte che viene direttamente riflesso sulle gesta delle sue vittime più umili.
GENUS PAN, L’UOMO IN QUANTO ANIMALE
Lungometraggio narrativo più breve di Lav Diaz da Elegy to the Visitor from the Revolution del 2011, Genus Pan non è solo questo. Il regista filippino ha realizzato un film sull’uomo in quanto animale, una similitudine che viene proiettata sullo schermo grazie al rapporto tra i tre protagonisti. Una spirale di invidia, rabbia e violenza che non lascia scampo allo spettatore, tra furti e crimini, tra segreti e credenze. Le emozioni e l’empatia che dovrebbero tracciare un solco tra uomo ed animale vengono sempre meno, lasciando spazio agli istinti primordiali, all’essere umano selvaggio ed egoista.
Lav Diaz riflette su religione e credenze – passando dai cardini della tradizione cristiana (il pentimento per i peccati commessi oppure l’umanità da contrapporre agli egoismi) alla blasfemia – e si serve della storia delle Filippine per tentare di riflettere sul presente e sul futuro del Paese. Le conquiste giapponesi e le razzie straniere per denunciare la dittatura di oggi, il monopolio della corona spagnola per rimarcare lo stato di corruzione in cui versa il Paese asiatico.
Dal punto di vista registico, Lav Diaz non arretra di un millimetro e continua a portare avanti il suo credo: piani fissi, piani sequenza interminabili, bianco e nero che ammalia grazie ad un fotografia eccezionale. Degne di nota le interpretazioni di Bart Guingona, Don Melvin Boongaling, Nanding Josef, mentre il commento sonoro è come da tradizione affidato canzoni rituali diegetiche.
Genus Pan, come gran parte della filmografia del regista 62enne, è destinato a dividere: una cosa è certa, Lav Diaz si conferma uno degli autori più innovativi e radicali della sua generazione.