Peninsula è uno di quei film inizialmente selezionati per prendere parte all’edizione della fantasma Cannes 2020, salvo poi venire dirottati in giro per tutto il mondo nei festival di cinema sopravvissuti – con mascherine e distanziamento – nell’arco di un anno estremamente travagliato. In particolare, Thierry Fremaux accompagna il sequel standalone dell’ottimo Train to Busan di Yeon Sang-ho (che torna ancora alla regia dopo essere già stato ospitato nel 2016 proprio dal festival francese) nella selezione ufficiale della Festa del Cinema di Roma 2020, marchiato con l’ormai tragicomico “bollino Cannes” che ne certifica la provenienza dall’ombra delle palme della città costiera in Francia.
PENINSULA, IL SEQUEL DI TRAIN TO BUSAN, È UNO ZOMBIE MOVIE CONFUSO SENZA ALCUNA ISPIRAZIONE
Peninsula si apre con una per niente riuscita e piuttosto goffa introduzione atta a presentare gli eventi cronologici della prima pellicola, nell’ordine di sottolineare l’avvenuto salto temporale di quattro anni che ora vede la Corea del Sud come un’immensa area geografica posta in totale quarantena nell’ordine di prevenire il divampare dell’epidemia zombie al di fuori dei circoscritti confini nazionali. Sempre goffamente, nelle prime battute si tinge anche con un po’ di inglese spruzzato di qua e di là, strizzando un occhio a un timido tentativo di internazionalizzazione mentre l’altro guarda scintillando l’incasso del primo capitolo che ai tempi sfiorò i 100 milioni di dollari di ritorno al botteghino mondiale.
Il problema è che Yeon Sang-ho lo fa andando a snaturare tutti i punti vincenti di Train to Busan, che nelle sue due ore di girato riusciva a trovare soluzioni di intrattenimento efficaci e sempre differenti nonostante l’impianto del concept fosse di una banalità disarmante. Si doveva andare da un punto A ad un punto B a bordo di un treno mentre fuori esplodeva il caos ad opera dei protagonisti indiscussi del film, i famelici infetti assetati di sangue. Fine. Invece con Peninsula il regista cala (davvero incomprensibilmente) la scure sulle vincenti intuizioni che hanno siglato il successo del suo precedente lavoro, cambiando totalmente registro e cercando un’apertura di pubblico e di storia ampliando i confini – del racconto e degli spazi – con una davvero eccessiva propensione a guardare nel già estremamente saturo bacino di genere statunitense.
Se il plot pare assomigliare a un 1997: Fuga da New York in ritardo di quasi quarant’anni sul calendario e vede i protagonisti, rifugiati coreani a Hong Kong, tornare nella penisola devastata e post-apocalittica per recuperare borse cariche di milioni di dollari (quelli sperati al botteghino?) per poi scappare a gambe levate, lo svolgimento è quello che scivola nell’errore in cui molti altri sono già andati ad incappare. Sostanzialmente ci si dimentica che l’unico e vero valore aggiunto di uno zombie movie sono proprio loro, gli zombie (chi lo avrebbe mai detto), accantonati ai margini dell’azione per lasciar spazio alla grande e per niente ridondante metafora dell’abbrutimento umano, dei valori perduti e dell’homo homini lupus. Si ironizza, chiaramente, perché fa quasi tenerezza vedere come il focus del film sia completamente sfasato nel cercare di contenere uno stile di intrattenimento a cavallo tra le sempre pittoresche (per un occidentale) sfumature k-pop e l’aspirazione a catturare sguardi fuori dai proprio confini, mescolando maldestramente le gigionesche bande di predoni sulle orme di Carpenter a una incapacità complessiva di far interessare a un film che è più verbo che lotta alla sopravvivenza.
Sang-ho butta nel calderone un po’ tutto e lo fa alla rinfusa, soprattutto calcando la mano sulla costruzione di rapporti e motivazioni in seno a un improbabile destino al quale nessuno farebbe più di tanto caso se solo arrivasse, prima o poi, il piatto forte dell’azione. Questo però in realtà non avviene praticamente mai e nelle rare occasioni in cui tenta di farlo non è nemmeno aiutato da quella condizione ibrida anche di budget, che vedendo Peninsula spostarsi dagli spazi ristretti di un treno alle strade in mezzo a uno skyline in decadimento, svela una natura realizzativa farlocca dove la massiccia e piuttosto discutibile CGI impiegata risulta difficile da digerire per l’occhio che guarda nel 2020 e che, in questo contesto, è oramai abituato a ben altro.
In sostanza quello di cui si macchia Peninsula è il divenuto ‘The Walking Dead Sin’, ovvero il lasciare indietro il most valuable player del genere, gli zombie e la loro ferocia, per andare a rincorrere noiosi e penosi intrecci narrativi che mirano all’esclusiva affezione ai propri monodimensionali protagonisti, magari condendo il tutto anche con fuori tempo e contesto chiose moralistiche. Un passo indietro anni luce che manca clamorosmanete il proprio intento.