Mike Flanagan, dopo due anni esatti dallo straordinario successo su Netflix di Hill House, è tornato all’antologia di The Haunting con una seconda stagione in nove puntate: The Haunting of Bly Manor. Nel cast del regista di Somnia (che è disponibile su Amazon Prime Video), il ritorno di Victoria Pedretti, Carla Gugino (ormai due pseudo-muse del regista di Somnia insieme alla ricorrente presenza attoriale della moglie Kate Siegel), Oliver Jackson-Cohen e Henry Thomas (l’Elliot di E.T. di Spielberg), qui affiancati anche da T’Nia Mille, Rahul Kohli e Tahirah Sharif.
Come nel caso di The Haunting of Hill House, il soggetto è tratto da un racconto della letteratura gotica del 1898 The Turn of the Screw (titolo italiano Il Giro di Vite) di Henry James. Anche quest’opera scrive un nuovo interessante capitolo della filmografia orrorifica di Flanagan, fra cui Ouija (2014) Il gioco di Gerald (2017), Doctor Sleep (2019): gli ultimi due tratti sempre dalla letteratura horror, nello specifico da due opere di Stephen King.
«PERSINO L’ANIMA SI ARRENDE AL TEMPO»: L’INTRECCIO METANARRATIVO DI THE HAUNTING OF BLY MANOR
Nel giorno precedente le nozze di due giovani promessi sposi, gli invitati più stretti si riuniscono per un pranzo di prova e, nel corso di varie conversazioni, si spostano in un ampio salone dai toni gotici per assistere al perturbante racconto di una donna di mezza età (Carla Gugino). In un processo metanarrativo prende avvio la storia, ambientata negli anni ’80, della giovane istitutrice americana Danielle Clayton (Victoria Pedretti) che, trovandosi a Londra, risponde a un annuncio per essere ingaggiata dal facoltoso Henry Wingrave (Henry Thomas), affinché possa badare ai suoi due giovani nipoti Miles (Benjamin Evan Ainsworth) e Flora (Amelie Bea Smith) da poco rimasti orfani e relegati a Bly Manor, nell’Essex. Quando Danielle si reca nell’antica tenuta, un insieme velato di strane apparizioni e comportamenti sospetti da parte dei due bambini mette in moto alcuni eventi inquietanti che inducono la giovane istitutrice e scavare nella storia della famiglia Wingrave, di Bly Manor e della sua stessa esistenza.
«NON POSSIAMO CONTARE SUL PASSATO»: IL SALTO DI FLANAGAN DA HILL HOUSE A BLY MANOR
È noto che The Haunting di Flanagan si avvicina alla costruzione antologica di American Horror Story con il suo insieme strutturale omogeneo che ripete non solo il complesso attoriale, ma anche l’ambientazione.
Il racconto iniziale, con cui prende avvio la serie, innesca un processo continuo di analessi (flashback) e prolessi (flashforward) che guidano al ricongiungimento tra l’inizio e la fine in una circolarità di sceneggiatura perfettamente chiusa. È infatti proprio lo strumento metanarrativo che avvia lo scavo analettico, che di volta in volta retrocede verso il passato, andando sempre più in profondità.
Il tutto è intessuto da una terrificante storia gotica, anche se la macchina narrativa di The Hauting of Bly Manor fatica ad avviarsi (a differenza di Hill House), spesso trascinando faticosamente le sotto-trame. Il primo vero brivido arriva solo alla fine del terzo episodio, seppure, nel suo complesso, Flanagan non indugi sull’elemento orrorifico come era avvenuto nella prima stagione. Ciò rallenta lievemente il ritmo, pur rafforzando lo script che pare seguire una formula che privilegia l’approfondimento della storia ai jump scare.
In Hill House succedeva che la domanda-stimolo sul mistero sottendeva la narrazione sin dall’inizio, garantendo un’attenzione continua, utile quindi a stimolare lo spettatore quando l’intreccio diventava problematico da gestire e difficile da sostenere dato il notevole carico della narrazione – in quel caso più coinvolgente dal punto di vista psico-emotivo, in quanto erano messe in gioco pesanti dinamiche familiari.
Benché i contenuti si facciano più profondi e stratificati, Bly Manor non ha la presa estetico-emotiva di Hill House che, già dalle prime battute, si dimostrava capace di conquistare lo spettatore grazie all’utilizzo di un orrore ben strutturato che ne recuperava l’attenzione pluri-stimolandola. Il tutto non senza un buon sonoro e una buona fotografia che, nel caso di questa seconda stagione, vengono ulteriormente migliorati.
«È TUTTO PERFETTAMENTE SPLENDIDO»? L’IMPOSTAZIONE MULTILINEARE A PLURIPROSPETTICA DELLA SERIE HORROR NETFLIX THE HAUNTING
A reggere il gioco, garantendo la presa sullo spettatore, non è solo la domanda di senso sul mistero che si cela dietro gli eventi di Bly Manor (anche se tarda ad arrivare), ma è l’intrinseca articolazione multi-strutturale. Il mantenimento di questo congegno seriale evita, così, di mettere in crisi lo script. Come succedeva in Hill House, la multi-linearità si sviluppa in momenti temporali diversi destinati a creare un intreccio composito e offerto molto bene, ma che – anche nell’episodio migliore – difficilmente supera i livelli del sesto episodio della prima serie. Nello specifico, lo snodo dell’intreccio “alla Flanagan” si rivela in un impianto scenico che presenta una situazione-limite: qui i personaggi si trovano coinvolti tutti insieme in una sorta di epifania del paranormale che stravolge la struttura narrativa preesistente, per portare alla luce le verità profonde dei personaggi.
Il dinamismo è offerto da due importanti elementi: dall’intelaiatura generale che vede una sceneggiatura assolutamente non scontata, ma sapientemente dosata con improvvisi capovolgimenti che rinviano a una continua rilettura di ciò che si è visto; e dall’impostazione pluri-prospettica, per cui, spesso, diverse sequenze sono riproposte da punti di vista differenziati, nonché da visuali diverse dello stesso personaggio generando un loop che obbliga a una risemantizzazione delle scene stesse, facendo emergere nuovi significati. In questo processo diventano fondamentali l’ottimo montaggio e la solida recitazione degli attori.
Si aggiunge, inoltre, anche l’uso scenografico della luce nelle riprese (sempre da gothic revival): durante il giorno regna un tepore soffuso che rinfranca e prepara al buio profondo della notte. Quando l’oscurità domina, invece, non poche sono le inquadrature quasi spezzate con scissioni e alternanza fra limpidezza e sfocatura che alimentano incomprensione e tensione nello spettatore. Una fotografia, dunque, utile a riproporre la separazione e la sovrapposizione fra i piani del naturale e soprannaturale. Tutto ciò amplificato dal commento musicale dei The Newton Brothers, con cui Flanagan ha da tempo stretto una proficua collaborazione.
AMORE E MORTE NEL GOTHIC-STYLE DI THE HAUNTING OF BLY MANOR
Se American Horror Story – a cui irrimediabilmente muove il riferimento inter-seriale – è un gotico dell’eccesso, quasi barocco, che ricerca limiti estetici sperimentali, maniacali e comunque scenograficamente degni di nota, The Hauting ricerca uno stile più raffinato e classico che riporta alla letteratura sette-ottocentesca e da cui attinge in rifermento al rapporto tematico amore-morte.
Dunque, non solo la scelta di un’ambientazione in tutto e per tutto gotica, un maniero sperduto nelle campagne inglesi, gli spazi ampi che si aprono lasciando trapelare un sentimento contrastante di sicurezza e terrore (il sublime romantico), ma uno stile che muove più in là nel tempo, verso quello di Edgar Allan Poe, in cui entrano in gioco elementi perturbanti, provenienti dall’interno della psiche oltre che dall’esterno, e quindi tematiche anticipatorie della psicoanalisi. Uno stile che, nello specifico, arriva ad oggi con quel suburban gothic di cui è esimio rappresentate Stephen King e dalla cui produzione e atmosfera Flanagan attinge avidamente.
«IL POZZO GRAVITAZIONALE PER LE ANIME»: BLY MANOR TRA FANTASMI E DESIDERIO
L’isolamento e le ombre personali che trovano riflesso nelle apparizioni esterne sono la chiave concettuale per leggere i temi di Bly Manor (e anche di Hill House). La necessità di risoluzione psicoanalitica del conflitto interiore si esplica nella riesumazione di ricordi traumatici, non metabolizzati, legati spesso alla morte e alla frammentazione identitaria.
Bly House nei suoi momenti più emozionanti si muove fra The Others (Amenábar, 2001), A Ghost Story (Lowery, 2017) e Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Gondry, 2004), fra il senso dell’attesa e la permanenza della memoria negli spazi architettonici decadenti di una psiche confusa e traumatizzata. Così, le reti di ricordi e i viaggi attraverso il passato originano un olismo del mentale che permette di ricostruire il senso e il valore del sé e dell’altro, riplasmando identità e coscienze grazie a un’operazione continua di scavo. La connessione sistemica dei ricordi, infatti, permette di rivivere ma anche di ricreare l’io e l’alterità – proprio come Joel faceva con Clementine nel film di Gondry.
Nel rapporto di sofferenza fra l’io e il trauma, in cui è quindi avviato un processo continuo di recupero e rivisitazione, emerge il tema forte del desiderio, del meccanismo eternamente incompiuto, della “faccenda in sospeso” come una necessità che implica permanenza, anche nella morte.
Questa è la verità psicoanalitica che Lacan leggeva nell’Amleto shakesperiano (Lacan, Il Seminario, Libro VI): il desiderio è il meccanismo in cui si è immessi sin dalla nascita, un meccanismo che permane alla soddisfazione del bisogno, che non si esaurisce, che sopravvive anche dopo la morte. Proprio come accade allo spettro del padre di Amleto, il cui desiderio perdura obbligando il fantasma alla presenza nel mondo dei vivi. Il fantasma e il desiderio sono entrambi sinonimo dell’incompletezza, di “ciò che sopravvive”. Flanagan riesce, nel suo lavoro, a rendere bene questa complessa idea, proprio come avviene nel penultimo episodio che permette di spiegare il mistero che abita Bly Manor.
In qualche modo, Lacan e la psicoanalisi si trovano legati a doppio filo con Flanagan: da una parte per l’interpretazione del classico di Shakesperare sopracitato, dall’altra per il gotico e il racconto de La lettera rubata di Poe a cui, sempre Lacan, aveva dedicato uno dei suoi seminari.
Flanagan, così, si mostra essere un fine conoscitore di una certa letteratura, di quella classica che può essere riproposta nella contemporaneità seriale, perché non si esaurisce, perché sopravvive, perché ha sempre qualcosa da dire. Il creatore di The Haunting scava a fondo e ricerca in ciò che l’arte può restituire in quanto catarsi dell’io, anticipando gli stati più oscuri dell’umano, le sue pulsioni, i suoi desideri, le sue sofferenze. Di fatto, ancor prima di Poe, Shakesperare stesso è in qualche modo anticipatore di quella neo-corrente inaugurata da Freud che ha fatto degli stati di coscienza alterati e sofferenti uno studio scientifico, e sempre il Bardo dell’Aven è citato da Flanagan in entrambe le stagioni di The Haunting. Questo succede perché, in fondo, quella presenza del soprannaturale vuole mettere alla prova i limiti della razionalità, ammonendo sul fatto che «Ci sono più cose in cielo e in terra, di quante ne possa sognare la filosofia».