The Dark and the Wicked, presentato nella sezione Le Stanze di Rol al Torino Film Festival 2020 (edizione tutta in streaming), è un film horror che non brilla per originalità eppure, con una certa eleganza delle ambientazioni e della messinscena, riesce a discostarsi dal mare magnum delle produzioni di genere senza infamia e senza lode e a vantare guizzi che ci portano a consigliarne la visione.
THE DARK AND THE WICKED È UN DRAMMA HORROR SUL RAPPORTO TRA MORTE E MALE
La storia si dipana piuttosto lentamente, e non senza suggestioni e divagazioni orizzontali. Al centro dello script – firmato dal regista Bryan Bertino – troviamo dei fratelli (Marin Ireland, The Irishman, e Michael Abbott Jr., Loving) che raggiungono la madre nella fattoria di famiglia, sperduta negli ariosi panorami dell’America rurale. I due sono tornati a casa per stare vicini al padre moribondo, ma a stupirli sin da subito è il comportamento inquietante della madre. Gesti e parole incomprensibili lasceranno presto posto a una lenta perdita del controllo, mentre una minaccia sovrannaturale si farà sempre più concreta.
The Dark and the Wicked non è certo un capolavoro, eppure ha tutte le carte in regola per garantire poco più di un’ora e mezza di cinema di genere di alta qualità. Bryan Bertino non ha mai brillato in quanto a talento e, dopo lavori mediocri come The Strangers, Mockingbird e The Monster, risulta quasi sorprendente che qualcuno gli abbia affidato un budget di 13 milioni di Dollari. La cifra potrebbe sembrare misera se paragonata a certi standard hollywoodiani, ma – tanto più che è stato girato nella fattoria del regista e che il cast non è certo composto da A-listers – risulta astronomica rispetto ai 4 milioni con cui Robert Eggers ha girato The Witch e The Lighthouse (qui la spiegazione) e ai 10/9 con cui Ari Aster ha portato a casa Hereditary e Midsommar (qui la spiegazione).
LA SPIEGAZIONE DI THE DARK AND THE WICKED STA NEL SIGNIFICATO DIETRO LA PAURA
A vedere il film non è ben chiaro dove siano finiti tutti quei soldi, ma sono chiare le influenze avute proprio dai suddetti registi sul nuovo lavoro del cineasta texano. Abbandonando le erratiche esplorazioni esperite nella sua filmografia (dal thriller sanguinolento al monster movie passando per il found footage), Bertino si attesta su una narrazione estremamente evocativa ed emotiva che ruba a piene mani proprio da The Witch e Hereditary. The Dark and the Wicked è infatti un dramma horror che pur non lesinando momenti di grande crudezza è intessuto sull’attesa e l’emotività. Proprio come nel cinema di Aster, la morte è presente sotto forma di un’onnipresente e opprimente sensazione di lutto, e i protagonisti sono troppo presi dall’elaborazione di questo per accorgersi in tempo che sta prendendo forma intorno a loro un disegno maligno ineluttabile.
A interessare il regista è proprio l’esperienza del trapasso, in solitudine o con dei cari al proprio fianco, eppure il focus della sceneggiatura non riesce mai ad essere abbastanza nitido da sfruttare lo spunto pienamente, con un dipanarsi a volte contraddittorio che depotenzia ogni possibile messaggio sottostante. Vi sono anche immagini piuttosto potenti, eppure afferiscono sempre a un immaginario horror più o meno rivisto, senza raggiungere neanche lontanamente l’iconografia potentissima degli autori cui si ispira. Cionnonostante, la svolta creativa – seppur derivativa – di Bertino può comunque dirsi un successo, dato che confeziona senza dubbio il suo film migliore (e di molto).
PER BRYAN BERTINO NON BASTA ISPIRARSI AD ARI ASTER, MA È UN INIZIO
The Dark and the Wicked, vincitore al Sitges per la Miglior Fotografia e la Miglior Interpretazione Femminile, ha il problema di esistere in un momento storico nel quale i grandi autori si cimentano proprio con i canoni della paura riscrivendo cosa sia un film horror – non solo Aster ed Eggers, ma anche Aronofsky, Refn, Peele, Guadagnino, Lanthimos – eppure proprio di questa temperie è un figlio minore. Non si può cavar sangue da una rapa e difficilmente Bryan Bertino segnerà mai la storia del cinema, ma se esiste una via di mezzo tra il genere ‘di mestiere’ e l’opera d’arte, la pellicola in questione prova a collocarsi un po’ maldestramente nel mezzo delle due categorie.