Nonostante prometta sin dalle sue prime battute di voler sviscerare la questione su cui si concentra, Lucky si inerpica nel nobile tentativo di utilizzare il cinema di genere, l’home invasion con vene da slasher, per trattare una tematica estremamente sensibile come quella delle violenze sulle donne, sbiadendo sia nel governare il mezzo che nel veicolare il contenuto.
Lucky, racconto di genere al servizio di un tema sociale
Presentato nella sezione Le stanze di Rol del Torino Film Festival 2020, il film di Natasha Kermani apre nei minuti iniziali con un’attenzione tutta spostata su dettagli e particolari: pezzi di coccio, schegge di vetro, tagli del volto. Un focus che si pone immediatamente a terreno sul quale seminare i frammenti di un racconto del quale raccogliere un poco alla volta i tasselli del puzzle, ma che svela in realtà molto rapidamente tutte le sue carte, a partire dalla presentazione didascalica dei propri personaggi.
Lucky inizia con May Ryer (Brea Grant), una scrittrice di libri di auto-aiuto che un tempo riuscivano a vendere decisamente meglio di quanto non facciano adesso. La prima dimensione del film è quindi già servita con un’impronta estremamente marcata, e quando la donna torna a casa e scopre che ogni notte un uomo entra nella sua abitazione per tentare di ucciderla nell’apparente indifferenza del marito (Dhruv Uday Singh), che la mattina dopo la lascerà poi sola. Il resto dell’arco metaforico è già ampiamente completo. Infatti una delle maggiori criticità imputabili alla pellicola della Kermani è la fretta e il tratto grossolano con il quale il film (che vede in sceneggiatura la stessa Brea Grant) pare voler mettere subito in chiaro la sua sfera concettuale, non preoccupandosi troppo di sfoltire fino all’osso la struttura del genere di appartenenza che ne esce pesantemente svilito da un punto di vista dell’intrattenimento che al loop a cardine della diegesi non accompagna lo stimolo della visione.
Il concetto del non sentirsi sicuri nemmeno a casa propria , fondamentale per ciò che vorrebbe fare il film, cede davvero troppo rapidamente il passo al disinteresse alimentato da un ritmo bacchettone e pedante (a differenza dell’ottimo lavoro sull’ansia e disperazione fatto in The Invisible Man) che di certo non è aiutato in fase di montaggio. Lucky non feconda mai davvero una dialettica tra i dettagli che dissemina e la conseguente ricostruzione del percorso, palesandoli in maniera insistente attraverso un tratto registico estremamente scolastico e timoroso che la metafora a cappello dell’intero racconto non ne esca fuori con sufficiente forza.
Lucky lancia un j’accuse! allo spettatore
In realtà questa arriva sgonfiata al termine degli ottanta minuti di girato in buona parte a causa del suo deporre rapidamente le armi del genere in cui si inscrive, ma soprattutto per colpa di una difettosa ed estremamente miope trattazione della tematica. È molto meno progressivo di quanto dovrebbe essere per funzionare a livello filmico il j’accuse! che il film grida allo spettatore, nell’emergere di una retorica dell’accerchiamento sì fondamentale a livello di sensibilizzazione sociale, ma parziale nei termini scelti. Fanno bene la Kermani e la Grant a battere il ferro sul concetto di sordità di una società spesso colpevolizzante e accusatoria nei confronti di chi subisce violenza, e in questa misura è azzeccata la scelta di includere il taglio moralizzante delle donne nei confronti delle stesse donne.
Stride però lo stile ballerino con il quale lo si fa, che per alcuni istanti accarezza con un’ironia decontestualizzata dal tono generale che vorrebbe essere più graffiante, così come stride la trattazione del “do it alone” che pervade l’intera pellicola e finisce per sostituire il “trovare una forza interiore dentro sé stessi” con il “tutto ciò che è fuori da te è una concreta minaccia”. È un risvolto piuttosto inquietante quello al quale giunge il film in chiusura, sintomo indubbiamente di un malessere sociale minato ancora fortemente dall’influenza di un sistema di stampo maschilista e patriarcale (riflesso nelle istituzioni) che pervade trasversalmente la nostra società a ogni livello, percepito nel caso di Lucky come un veleno dal quale difendersi ad ogni costo ma che giunge a una conclusione che taglia fuori ogni possibilità di dialogo con una disturbante chiamata alla crociata che scansa via ogni ulteriore opportunità di confronto. Quello che si lancia non è affatto un buon segnale, ma proprio per questo ci sarebbe da riflettere a riguardo.