Interno notte. Una donna iraniana si trova in casa ed è completamente presa da un cartone animato trasmesso dalla televisione, un episodio di Willy il Coyote e Beep Beep in cui al solito il lupo della prateria perfido e calcolatore si prende delle batoste dal roadrunner furbo e scattante. Ecco, fin dalla scena di apertura di Botox – produzione iraniano-canadese presentata in Concorso al Torino Film Festival 2020 – capiamo che regista Kaveh Mazaher ci vuole portare dentro ad un territorio che sta fra la comicità e la brutalità, in pieno stile slapstick.
BOTOX, ASSASSINE PER SBAGLIO
Quella donna si chiama Akram (Sussan Parvar) è autistica e abita insieme alla sorella minore Azar (Mahdokht Molaei) e al fratello Emad (Soroush Saeidi). Quest’ultimo, tutt’altro che sagace, ha in mente un piano per diventare ricco: entrare nel business dello spaccio di droga allestendo nel cortile della casa una serra per coltivare funghi allucinogeni. Tutto bene o quasi finché un giorno la rabbia repressa di Akram esplode: presa in giro per l’ennesima volta da Emad, spintona il fratello mentre sta lavorando sul tetto dell’abitazione facendolo precipitare giù. Il resto si può immaginare. Per nascondere l’accaduto le due sorelle, di tacito accordo, si inventano che il fratello è partito per l’Europa e, mentre si occupano di occultare il cadavere e le prove dell’incidente, continuano da sole a portare avanti il folle progetto imprenditoriale di Emad.
DONNE E POTERE NEL FILM DELL’IRANIANO KAVEH MAZAHERI
Kaveh Mazaheri ci racconta questa storia con i codici di un certo cinema occidentale. Lo fa innanzitutto attingendo a piene mani dal bagaglio coeniano – in particolare dalla glacialità un po’ beffarda di Fargo – ma anche da certe commedie nere dove la presenza/assenza di corpi senza vita diventa un modo per condurre la narrazione verso territori sempre più inaspettati. Questa demitizzazione del dramma in realtà l’autore iraniano l’ha già messa in scena nei suoi due precedenti cortometraggi, Retouch e Unfair. Soprattutto nel primo (premiato come miglior corto al Tribeca) la storia è molto simile a quella di Botox: un marito di una donna fa sollevamento pesi in casa, un peso gli cade sulla gola e lo pone tra la vita e la morte, obbligando la moglie a decidere di salvarlo oppure stare ferma a guardarlo morire. Nello stesso modo, con il suo esordio nel lungo, Mazaheri esamina gli atteggiamenti della cultura iraniana nei confronti delle donne che, improvvisamente e casualmente, assumono e sperimentano una posizione di potere e di controllo. Ma sempre filtrando il tutto attraverso la lente della commedia nera.
LA SVOLTA ONIRICA DI BOTOX
Qui infatti arriva in soccorso la bellissima fotografia di Hamed Hosseini Sangari, che viviseziona la scene in modo freddo e antispettacolare: macchina immobile, campi medio-lunghi, geometrie solide e colori grigiastri. Non c’è nemmeno sangue: la tragicommedia emerge solo nei gesti e nei comportamenti mentre sullo sfondo tutto pare rimanere immobile e marmoreo, come nel campo lunghissimo, per distanza e durata, dell’incidente sopra il tetto della casa. Solo nella seconda parte della pellicola i toni di Botox virano nel surreale, contaminando la narrazione di affreschi onirici, più dinamici e convulsi, in un confronto serrato fra le sorelle e la realtà (o l’ipotetica realtà) che le circonda. Una via di fuga che, con meno distacco e più partecipazione emotiva, porta l’elaborazione del lutto a implodere fino a disinnescare quella situazione, per certi versi sovversiva, che si era venuta a creare.
Forse è questo abbandono del genere e questa disillusione finale che rende alla fine Botox un prodotto incompleto e mozzato, troppo asincrono per essere apprezzato nella sua interezza. Eppure, nonostante questo, è innegabile che rimanga un tentativo nuovo e ambizioso di raccontare la società iraniana attraverso la commedia nera. Dopotutto, per dirla come Victor Hugo: “la libertà comincia dall’ironia”.