Elegia Americana (Hillbilly Elegy) di Ron Howard, disponibile direttamente in streaming su Netflix, è un film nato con la stanchezza nelle ossa. Talmente stanco che questa elegia si trascina per quasi due ore più come un epitaffio di un fare cinema vecchio e senza la fantasia di donare la minima energia alle sue immagini in movimento.
E se Vanessa Taylor va ad adattare il romanzo autobiografico del self-made man statunitense per eccellenza J.D. Vance, che vive il suo personalissimo sogno americano nel discutibile elogio di un passaggio possibile (a suon di botte) dalla terra dei “bifolchi” di montagna agli incravattati di Yale e dintorni, quello che esce fuori dal lavoro di Howard è un racconto imbolsito e artritico che risulta fatalmente statico anche, e soprattutto, nel confronto che fa tra tre generazioni differenti.
Elegia Americana e il big dream americano
Non è sufficiente armarsi del big dream a stelle e strisce immaginando e auspicando un ritorno della grande prosperità dei gloriosi anni ’50 bagnandoli di una luce che ha il sapore del divino, così come non è sufficiente invocare in apertura della pellicola il desiderio di rivalsa che è a cuore dell’essenza USA per giustificare un arco disfunzionale che giunge a chiudersi in una chiosa altrettanto accomodante.
Elegia Americana ce lo fa capire più e più volte che la “famiglia è l’unica cosa che conta”, battendo il chiodo ogni istante dopo averci messo davanti alla drammaticità di rapporti tossici e che trovano tutti una scusa a passo di gambero (“ha avuto una vita difficile”). Quindi non importa se il nonno gonfiava a suon di sberle la nonna (una grande Glenn Close, che non scopriamo adesso ed è un peccato vederla sprecarsi qui dentro) e lei per rimando gli dà fuoco, perché magari poi basta che vadano a vivere separati ma si rimane comunque tutti uniti nelle grandi reunion di famiglia e soprattutto nei momenti in cui vanno gestiti gli strappi di follia e violenza della figlia (Amy Adams, anche per lei vale il discorso fatto per la Close). In tutto ciò l’autorità deve rimanerne fuori, poiché i panni sporchi si lavano da sé e quello che conta è il sangue che scorre nelle vene, anche se contaminato dalle droghe e da anni di soprusi.
Il film Netflix di Ron Howard è anticlimatico e patinato
Se tutto questo emerge a sottotesto questionabile del racconto, diviso in salti temporali che fanno di tutto per giocare sulle rivelazioni progressive ma con una resa a dir poco anticlimatica, Howard pare prendere le distanze e limitarsi a trasporre ad litteram la carta stampata credendo col freno tirato a ciò che sta riprendendo con la sua mdp. Per questa ragione le avventure del J.D. Vance cinematografico, nella versione adulta un Gabriel Basso nei cui tratti estremamente convenzionali c’è lo standard filmico del montanaro che va in città, appaiono patinati nel gioco ripetitivo e alla “nonostante tutto volemose bene” dove l’unica chiave narrativa è quella della stretta e del rilascio. Se la nonna ti sgrida e ti dà del fallito, un attimo dopo ti compra la calcolatrice con i suoi ultimi soldi; se la mamma ora ti prende le figurine, l’istante successivo vuole ammazzarti.
Un meccanismo che odora di muffa e che viene reiterato senza nessuna eccezione alla regola lungo tutto il corso del film per controbilanciare e tenere sempre su un piano moralmente accettabile le aberrazioni alle quali si assiste. Anzi, queste vengono elevate (nelle intenzioni di partenza, perché Howard fa solo un po’ di taglia e cuci) a motore alla base del successo sudato col sangue di Vance, che nel suo percorso di formazione alla Terminator – a riguardo c’è un insegnamento-gag della nonna – ci viene anche mostrato come accompagnato in gloria da tutti i familiari quando si arruola nei Marines (seriamente, poteva mancare la Patria?).
Alla resa dei conti da Elegia Americana esce fuori qualcosa che nella sua forma cinematografica si rivela insopportabile da seguire e che suscita facile orticaria nel modo moralizzante in cui gestisce i propri up & down, segnando uno dei punti più bassi della carriera recente di Ron Howard. Spiace solo per Adams e Close, che se devono correre per gli Oscar possono farlo con un titolo più degno sulle spalle.