Nessuna band ha segnato la musica surf quanto i Beach Boys, che negli anni sessanta raggiunsero il successo planetario con la loro ricetta a base di melodie indimenticabili, arrangiamenti brevi ma estremamente curati e straordinarie armonizzazioni vocali. Agli occhi del pubblico la formazione musicale, composta da Brian Wilson, dai suoi due fratelli minori Dennis e Carl, dal cugino Mike Love e dall’amico di vecchia data Al Jardine, era l’incarnazione stessa della spensieratezza tipica delle spiagge Californiane.
Ma come spesso accade la realtà era ben lontana dall’immagine pubblica.
È da questa premessa che parte Bill Polhad, produttore di comprovata esperienza qui alla seconda prova registica (quasi un debutto), per confezionare Love & Mercy, un bio-pic sui generis che ripercorre la complicata esistenza del frontman Brian Wilson e della sua problematica salute mentale. Il percorso scelto da Pohlad è inusuale e si concentra su due distinti periodi nei quali il personaggio è ritratto da due attori diversi: Paul Dano (Il Petroliere, Youth) e John Cusack (Alta Fedeltà, Essere John Malkovich). Qui emerge la mano dello sceneggiatore Oren Moverman, già autore dell’interessante I’m Not There, in cui con Todd Haynes affidò la resa di Bob Dylan a sei interpreti distinti.
La pellicola si apre negli anni sessanta, quando il giovane Wilson (un perfetto Dano), reduce da un successo che è incapace di gestire, avverte il bisogno di interrompere i tour e rinchiudersi in studio per dedicarsi alle leggendarie sperimentazioni che daranno vita a uno degli album più importanti del ‘900: Pet Sounds.
Mentre il cugino si lamenta dell’incomprensibilità di nuovi titoli come Hang On To Your Ego (aggrappati al tuo ego), invocando un ritorno alla semplicità tanto amata dal pubblico, Wilson è evidentemente già partito per un viaggio personale. Con quel titolo probabilmente vuole rivolgere a se stesso un disperato appello di lasciarsi esistere, di lasciar esprimere il suo io tormentato. Forse lo sente talmente scivoloso e impalpabile da dovervisi aggrappare. Ma la disapprovazione di Mike, che attribuisce i testi criptici alle droghe, fa rivivere al giovane leader dei Beach Boys le antiche vessazioni paterne, il non riconoscimento di sé, della propria esistenza e della propria voce.
Non ha importanza ormai che ciò realmente provenga dal padre o da altri: Brian ha fatto sue quelle antiche abitudini e ormai è il suo stesso io che non si concede legittimazione ed espressione. Ne deriva un tormento che rende ancor più urgente il bisogno di affermazione, e l’anelito al riconoscimento diventa costante e insaziabile, proprio per la sua intrinseca mancanza.
Ecco il paradosso, il circolo vizioso che neanche il talento artistico permette di spezzare.
Anzi, è anche quello stesso talento ad essere intrappolato e impossibilitato a fluire in quanto espressione dell’io. Brian diviene un Sisifo condannato alla ripetizione da cui non si esce. Inizia il ritiro, graduale ma inesorabile. Rinuncia ad esibirsi sul palco. Meglio restare a casa a comporre musica. Meglio chiudersi in uno studio di registrazione a provarne ossessivamente la realizzazione. Meglio ricorrere al LSD per uscire da sé e dimenticare per un po’ la propria condizione.
Così si arriva alla complicata gestazione del disco successivo, Smile, la cui uscita viene più volte rinviata e alla fine sospesa. Si diceva che il motivo del blocco fosse l’eterna insuperabile competizione con i Beatles, ma evidentemente c’era di più. Era la rivalità con se stesso e con le “voci lontane…sempre presenti” a condannarlo alla ripetizione immobile. Brian resta a letto per anni, ingozzandosi di cibo.
Arriviamo all’età adulta, e alle spalle pesa di più l’insuccesso che la fama. È il turno di Cusack.
L’incontro di Wilson con un falso redentore, il dott. Eugene Landy (un Paul Giamatti fin troppo spietato), lo ha definitivamente privato del timone della propria vita. Il medico, attraverso un rigido controllo spacciato per terapia, di fatto continua a impedire l’espressione soggettiva del Brian uomo. Il film mostra l’inizio e la fine di questo percorso esistenziale, eliminando gli anni di mezzo, forse proprio perché l’immobilità non si prestava alla rappresentazione cinematografica.
Se Paul Dano incarna delicatamente le alterne pene del giovane Brian, John Cusack si cala a pieno, mimicamente innanzi tutto, nella maschera di angoscia del Brian più adulto. La messa in scena del periodo più tardivo appare meno esplicativa in merito all’effettivo susseguirsi degli eventi biografici, che non sarebbero a pieno comprensibili se le note finali non aiutassero a completare il quadro. L’incontro con l’amore sembra risolutivo, ma di solito nella realtà gli esiti sono meno fiabeschi: non esiste il vissero felici e contenti, bensì esiste l’attaccamento alla vita e il tentativo di trovare la propria via nonostante tutto. In ogni caso gli affetti sani aiutano, quelli che concedono spazio e libertà di esistenza individuale.
Insieme ai titoli di coda scorrono le immagini del vero Brian, ormai anziano, che si esibisce sul palco. Il film ci tocca nel profondo, ci fa guardare con nuovi occhi al percorso artistico del fondatore dei Beach Boys e ci ricorda prepotentemente come la vera arte e gli eventi della vita siano legati a doppio filo.
Diceva Albert Camus: “Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua. Non v’è sole senza ombra, e bisogna conoscere la notte. In questo sottile momento, in cui l’uomo si volge verso la propria vita, Sisifo, tornando al suo macigno, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.