La prima informazione che ci arriva da Billie, il documentario su Billie Holiday presentato fuori Concorso al Torino Film Festival 2020, non riguarda quella che può essere ritenuta la più grande cantante jazz e blues di tutti i tempi, ma riguarda invece una giornalista che viene ritrovata morta in circostanze misteriose nel febbraio del 1978.
Più di 200 ore di interviste inediti alla base di Billie
Si chiamava Linda Lipnack Kueh la vera fonte documentaria con la quale James Erskine (già autore di altri doc-biopic memorabili come quello su Pantani e quello su Socrates) ha attinto a più di 200 ore di interviste inedite che la giornalista raccolse alla fine degli anni ’60 per ricostruire la breve e controversa vita di Billie Holiday e farne una biografia mai edita. Conversazioni registrate con familiari, amici, membri delle forze dell’ordine e colleghi musicisti come Count Basie, Tony Bennett e Sarah Vaughan, mai pubblicate prima di oggi e che hanno un valore storico incalcolabile. É da quelle voci e da quei racconti che prende forma la vita di Billie Holiday, nome d’arte di Eleanora Fagan, considerata ancora la più grande voce femminile di sempre, morta di cirrosi epatica nel 1959 a soli 44 anni.
Più che la cantante jazz e blues, il documentario Billie racconta la donna e le sue fragilità
In realtà chi si aspetta un racconto didattico sulla figura artistica di Billie Holiday e la sua influenza nel mondo della musica jazz e del blues, ne rimarrà un po’ deluso. Billie si concentra sulla donna più che sulla cantante, tracciando un solco narrativo molto più vicino ad un film che al documentario vero e proprio. Eleanora Fagan viene impressionata fin dalla tenera età come un’anima perduta che cerca di sopravvivere nei sobborghi della Baltimora degli anni ‘20; stuprata già all’età di undici anni finisce per prostituirsi qualche anno dopo in quel bordello a cielo aperto che era il quartiere di Harlem. È qui che, a causa della frequentazione di numerosi Night Club, incontra per la prima volta la musica ma anche la droga e l’alcol.
Poi la nascita del mito: ovvero quando emerge come una delle voci più atipiche, malinconiche e straordinarie di tutta la storia della musica ‘leggera’, portandola a lavorare con grandi nomi del jazz come Count Basie, Artie Shaw e Lester Young. Ma anche allora, e ce lo ricorda bene Erskine, Billie Holiday non riesce a cacciare via i suoi demoni: insieme al successo arrivano gli arresti per droga e perfino gli anni di carcere. In definitiva, ciò che emerge è il ritratto di donna tormentata, anaffettiva, che tende all’autodistruzione, non solo attraverso l’assunzione di droghe di ogni genere e tipo, ma anche attraverso la scelta infelice di circondarsi di uomini spregevoli, spietati e violenti.
La vita di Billie Holiday, speculare a quella della sua biografa
Oltre a questo, ci sono altri due aspetti interessanti in Billie, che ne esaltano un tono ancora meno convenzionale. Il primo è l’intreccio fra la vita di Billie Holiday e il paese che la sua figura ha attraversato. Erskine racconta di un’America profondamente bigotta, razzista e misogina, anche fin dentro l’industria musicale in cui lavora la cantante. Sotto questo punta di vista, la Fagan pare per certi versi una figura di rottura che impatta dentro un mondo non ancora pronto per accoglierla. Tanto è vero che quando Billie Holiday canta Strange Fruit, vero inno antisegregazionista che condanna il linciaggio dei neri, il pubblico di un Night si alza e se ne va via imbarazzato.
L’altro spunto narrativo che Erskine sviluppa riguarda invece il parallelo fra Billie Holiday e la sua biografa Linda Lipnack Kuehl: il film è pieno zeppo non solo di riferimenti alla vita privata della cantante, ma anche alla vita privata della cronista, mettendo in luce quasi due vite speculari. Anche la giornalista infatti non solo aveva lo stesso grande problema di essersi imbattuta in diversi fallimenti sentimentali (finendo per divorziare più volte), ma è finita per intrattenere morbosamente delle relazioni con alcuni dei personaggi che ruotavano intorno alla vita di Billie Holiday e che ebbe occasione di incontrare per la registrazione delle sue interviste.
Questo punto di contatto che contamina l’oggetto del racconto con il suo narratore, è forse l’innovazione più significativa di questo documentario. Nel finale Billie assume perfino i contorni del crime, quando ritorna a narrare la scomparsa prematura di Linda Lipnack Kuehl in seguito a quello che per la polizia è stato un suicidio, ma che per la sua famiglia continua ad essere un sospetto di omicidio. Insomma, di nuovo dei demoni che fanno capolino e di nuovo un riflesso fra le due donne. Se ancora non fosse bastato, Erskine ci restituisce la natura terrena di una cantante straordinaria, allontanandosi anni luce da un’agiografia che isola l’icona dalle persone comuni. Una demitizzazione in piena regola che è anche un vero omaggio, l’unico possibile, a Billie Holiday.