La Boca, Cile. Senza l’abito talare avrebbero subìto processi e rischiato la galera, loro invece sono esiliati all’ingresso della dannazione. Sono quattro preti, tutti scomunicati, che devono espiare peccati di pedofilia, traffico di esseri umani e copertura dei crimini sotto la dittatura.
Nel suo quinto film, Il Club, il regista cileno Pablo Larraín firma una delle opere più belle che si siano mai viste sugli abusi, sul rapporto con il potere e sul rapporto con se stessi, con Dio e con la religione degli uomini consacrati. Sua anche la sceneggiatura, insieme a Guillermo Calderòn e Daniel Villalobos. Nel cast anche il suo attore feticcio Alfredo Castro (presente in tutti i lavori del cineasta cileno) e una rilevante Antonia Zegers nei panni di sorella Monica, suora e unica donna del convitto.
Temi non nuovi, recentemente tornati alla ribalta sul grande schermo. Ma se in altre pellicole lo sguardo è quasi distaccato e volto al trionfo della legalità (il riferimento a Il Caso Spotlight è puramente voluto), qui no.
La versione di Larraín è allo stesso tempo indagatrice sui fatti e introspettiva sui profili umani.
Approcci e sensibilità diverse, probabilmente sintomatiche del fatto che la narrazione avvenga negli USA o, come in questo caso, in America Latina. Il regista cileno non si astiene dai giudizi morali ma il suo non è un cinema politico come quello che aveva fatto precedentemente. I preti di Larraín non esitano a giustificare le loro malefatte nel nome dell’Amore con la A maiuscola, e quindi, pare di intuire, nel nome di Dio: “Lui ci ha chiamato a salvare vite umane dall’estrema miseria economica e culturale dei poveri – dicono i sacerdoti – e lui solo sa come e perché avvengono le cose. Noi siamo come bambini al suo cospetto e non possiamo capire i suoi disegni”.
I temi sono forti e il film è duro, durissimo.
Duro nella forma e nei dialoghi. Pablo Larraín, così come aveva fatto nella sua trilogia sulla dittatura cilena (Tony Manero del 2008, Post Mortem del 2010 e No – I giorni dell’arcobaleno del 2012), continua a mettere, oggi ancora di più, le dita (e la macchina da presa) nel fango. Ne Il Club non c’è redenzione, pentimento o espiazione ma solo convenienza, perfino compiacimento. Ma i personaggi quando arrivano nella casa sull’oceano sono già fuori dal mondo perché “morti dentro”. La costante assenza di controcampo nelle inquadrature sui sacerdoti non è che l’efficace scelta registica di mostrarli sempre isolati, soli, vuoti e al centro del loro vuoto. A La Boca il paesaggio è di quelli che toglie il fiato e i panorami sono da cartolina ma la luce di Larraín è sempre fosca e rarefatta. Considerando queste atmosfere, le ambientazioni e i temi impegnativi (per usare un eufemismo) ci si aspetterebbe lentezza e molta, molta pazienza da parte dello spettatore. Al contrario, invece, non c’è nel film un solo instante di pausa e la tensione cresce di continuo fino ai quindici minuti finali, quando le sequenze raggiungono livelli degni del miglior thriller.
Un film scomodo però, come scomoda e disturbante è la figura di Sandokan (Roberto Farìas) che snocciola gli abusi subiti come grani di un macabro rosario. Così come è scomodo, sebbene più rassicurante, padre Garcìa (Marcelo Alonso), il gesuita inviato dalle gerarchie per indagare sulla morte di un quinto sacerdote appena aggregato al “Club”. Anche l’accoglienza dell’inquisitore è da brividi: “Non abbiamo contatti con la gente del paese, rispettiamo gli orari e cantiamo. Conduciamo una vita santa”. Ma sarà proprio così?
Pablo Larraín ci introduce alla visione con i versetti 1:4 della Genesi: “E Dio vide che la luce era buona, e separò la luce dalle tenebre”. Quando la pellicola finisce, la luce e le tenebre sono ancora indefinite e i versetti iniziali risuonano quasi come un’invocazione a segnare una liberatoria linea di demarcazione. Nel frattempo e nell’attesa a lasciare il segno è un grande film.