Alex Rider, la nuova serie spy-thriller britannica prodotta da Eleventh Hour Film e Sony Pictures, ha debuttato su Prime Video nel Regno Unito nel giugno 2020, mentre nel mese di novembre è stata rinnovata per una seconda stagione. Adattato da Guy Burt – già co-sceneggiatore per I Borgia e qui creatore delle serie – il soggetto è tratto dalla serie omonima di racconti brevi scritti da Anthony Horowitz. Dopo il disastroso lungometraggio del 2006 Alex Rider: Stormbreak firmato da Geoffrey Sax, questo è il secondo adattamento con interprete principale Otto Farrant (Scontro tra titani, 2010). Insieme al giovane attore britannico, nel cast compaiono Stephen Dillane, Vicky McClure, Andrew Buchan e Brenock O’Connor.
ALEX RIDER: LA SERIE BRITANNICA SU UN INCONSAPEVOLE RAGAZZO-SPIA
Dopo la sospetta morte dello zio Ian (Andrew Buchan), il giovane Alex Rider (Otto Farrant) impatta una dura verità: oltre la maschera dell’ordinario impiegato di banca indossata per anni, Ian Rider era in realtà una spia dell’intelligence britannica, l’MI6. Intercettato dalla stessa agenzia, mentre tenta di scoprire di più sul mistero che avvolge l’omicidio dell’amato zio, Alex rivela le sue innate doti da “grande spia” e viene così brutalmente gettato in una missione sucida a Point Blanc, un riformatorio sospetto dove vengono ri-educati i figli di facoltose famiglie provenienti da tutto il mondo.
ALEX RIDER: UNA SERIE SPY-ACTION SGANGHERATA E CARENTE DI UN VERO SVILUPPO NARRATIVO
Dal nesso della trama, sostanzialmente emerge una sorta di Artemis Fowl per un pubblico adulto. La funzione della serie è prettamente evasiva, data anche la palese povertà dello script. Il problema però non è tanto l’agognato tentativo di capire quando inizi effettivamente la narrazione e dove vada a parare, ma la sua strutturale carenza di azione o tensione che dovrebbe per lo meno contraddistinguere un prodotto in questo stile. In un simile contesto, dove si salvano parzialmente la fotografia (non eccezionale, ma discreta) e le musiche di Raffertie, neanche il cast offre grandi prestazioni.
UNA SERIE BANALE DALLA FUNZIONE MERAMENTE EVASIVA
Nell’ordine, ecco le prodezze di una serialità dannata presenti in Alex Rider: personaggi che si affastellano, appaiono e scompaiono nell’arco di poche puntate senza lasciare la benché minima possibilità di immedesimazione allo spettatore, quindi senza una razionale gestione del loro screen time; un protagonista apatico che fatica ad affermarsi e di cui non si comprende pienamente il valore né lo sviluppo, minando così le fondamenta di ogni buona regola basilare riguardante l’arco di costruzione del personaggio; un super-cattivone (con tanto di donna/aiutante femme-fatale) stereotipato ai limiti del parossismo, pseudo-nazista e con il baffetto alla Stalin; storie parallele disconnesse e carenti di equilibrio narrativo rispetto a come prospettate dal main plot.
UN BUON SOGGETTO… MA PER MOTIVI DI FRANCHISING.
Dato il poco felice quadro della serie di Guy Burt, è possibile comprendere il motivo di una seconda stagione solo entrando in un’ottica commerciale. Alex Rider può aspirare a creare un nuovo franchising data la natura pseudo-action della serie che, tuttavia, non dona allo spettatore neanche il piacere di qualche effetto speciale a basso costo. In buona sostanza, si è di fronte a un manifesto dell’anti-cinema e del pro-capitalismo, senza nulla togliere a Prime Video che, con il suo ricco catalogo, sta regalando grandi emozioni al proprio pubblico. Prodotti come Alex Rider costituiscono un male necessario all’industria dello streaming; lavori senza grandi pretese, utili a generare profitti e a intrattenere (anche se qui non c’è il benché minimo trascinamento emotivo). Di racconti di Alex Rider ne esistono ben tredici e, se anche la seconda stagione riceverà lo stesso livello medio di accoglienza, c’è da aspettarsi incombenti minacce seriali.