C’è tanto – anzi tantissimo – da dire su questo film, meglio perciò fare ordine e procedere per gradi.
Per prima cosa il titolo. Il condominio dei cuori infranti: Ma perché? Per quale ragione un film che in francese si chiama Asphalte deve subire una trasformazione del genere, degna del miglior Christian Bale, solo per attirare pubblico? I distributori hanno appioppato alla pellicola un titolo classico, standard , da commedia italiana classica e standard , di quelle fatte con lo stampino e riproposte ogni anno al cinema, dove tutti sono basiti e sorpresi.
Se mi lasci ti cancello fu il precursore di questa nefasta pratica italiana; ma, se per quanto riguarda il film di Michel Gondry essa poteva essere giustificata dalla complicatezza del titolo originale (Eternal sunshine of the spotless mind) e di conseguenza alla sua resa impossibile in italiano, per quello che concerne il film di Benchetrit non esistono scuse: Asphalte deve rimanere tale e quale, al massimo una semplice traduzione Asfalto.
Lasciamo perdere l’annosa questione dei titoli italiani e veniamo al film.
Samuel Benchetrit è un regista e scrittore francese quarantenne, attivissimo in campo letterario, tanto da aver emulato – si fa per dire – le gesta del grande Marcel Proust, pubblicando nel 2015 il quinto volume della sua autobiografia intitolato Le cronache dell’asfalto (Les Chroniques de l’Asphalte), dal quale ha tratto il film.
In una grigissima banlieue francese si intrecciano le vicende di alcuni condomini – esatto, proprio quelli dai cuori infranti – sullo sfondo di una spiccata desolazione periferica, nella quale il tempo passa lentissimo.Il film si compone di tre storie distinte, accomunate da un profondo senso di solitudine, abbandono e alienazione.
Tutto è tese verso la ricerca di una tenerezza primordiale.
Gustave Kervern è un uomo che a seguito di un bizzarro incidente è costretto su una sedia a rotelle e, appena dimesso dall’ospedale, per una ragione ancora più assurda, tornerà nell’ospedale dove era stato in ricovero e conoscerà un’infermiera che lavora la notte, interpretata da Valeria Bruni Tedeschi, la quale, con grande sorpresa, non è insopportabile come al solito, ma al contrario dolcissima e oggetto di compassione. I due si vedranno tutte le sere, alla stessa ora, Kervern dirà di essere un fotografo per National geographic, infortunatosi sul lavoro, come il Robert Ricard interpretato da Eastwood ne I ponti di Madison County, lo stesso film che Kervern guarda la sera in cui conosce l’infermiera.
Nella seconda storia, invece, un giovane liceale interpretato dal figlio del regista, Jules Benchetrit, aiuterà una attrice alcolizzata, Isabelle Huppert, a fare i conti con il suo passato da ‘diva’ e il suo presente da donna invecchiata e artista decaduta.
Nell’ultima storia, infine, una signora algerina con un figlio in carcere, ospiterà un astronauta, interpretato dal grandissimo Michael Pitt, che per errore è precitato sul tetto del condominio e che, poiché la Nasa dovrà evitare uno scandalo mondiale, dovrà rimanere in casa qualche giorno con la signora, trasformandosi piano piano in una figura ideale del figlio.
Il film procede per ‘vignette’ nelle quali i personaggi interagiscono fra loro nei modi più inconsueti e improbabili, quasi come in un film di Roy Andersson. Ogni persona che il regista mette sullo schermo è incompleta, parziale, semi-nascosta nelle tenebre, di certi personaggi, come per esempio l’infermiera, non viene nemmeno rivelato il nome, come nei film espressionisti di più pregevole fattura.
Sono ‘bozze’ di personaggi, volutamente appena accennati: il regista non si cura di dipingerli completamente ma si limita a qualche disegno preparatorio.
Prendiamo il giovane liceale; all’inizio del film raccoglie delle monete dal tavolo, appoggiate sopra un biglietto che recita: “per il pranzo” e, forse, lasciategli da una madre che non apparirà mai per il tutto il film, oppure, l’uomo in sedia a rotelle, il quale non lavora di giorno e non dorme la notte, lasciandoci col dubbio di quale professione svolga e di come riesca a mantenersi. L’attrice, infine, fa vedere al giovane qualche suo film in bianco e nero come La ragazza senza braccia che per stile ricorda un film da Nouvelle Vague, ma poi altro non sappiamo, essa accenna ad un uomo, forse suo marito o amante, nello stesso modo in cui il liceale accenna alla morte dei genitori, scherzandoci sopra. Potremmo definirla una commedia esistenzialista, nella misura in cui, secondo la corrente filosofica che annoverava fra gli altri Moravia e Sartre, l’uomo moderno non è in grado di rapportarsi con la realtà e dunque tenta di trovarla attraverso dei ‘filtri’; le fotografie per il signore in carrozzella e le vecchie pellicole girate per Isabelle Huppert, oppure il cous cous che la signora cerca di propinare a Michael Pitt, il quale, per esempio, nonostante sia astronauta, ovvero un uomo che riesce a rapportarsi con le tecnologie più avanzate della terra, non è in grado di riparare il lavandino di Madame Hamida.
Se cercate una commedia nuova, divertente, malinconica, originale e ben scritta Asphalte è il film che fa per voi. Le idee funzionano, la messa in scena pure. La pellicola è quasi un incontro fra un film di Jim Jarmusch, per la sua natura esistenzialista e uno di Roy Andersson, in quanto riprende un po’ la comicità malinconica e surreale del regista di Songs from the second Floor.
Nel corso del film, infine, si sentirà uno strano rumore agghiacciante, che ogni personaggio interpreterà a suo modo, ognuno interpretandolo secondo la propria condizione esistenziale e, sarà per lo spettatore il momento più bello del film quando si verrà a scoprire la provenienza di quel suono.
L’unica cosa che lascia a desiderare è la scelta, ingiustificabile, del regista, di adottare il formato in 4:3 anziché il classico formato cinematografico in 16:9. In Mommy, per citarne uno, aveva senso, nel film di Benchetrit no.
Asphalte non è Il condominio dei cuori infranti, che lo spettatore non si lasci ingannare!