«Ognuno vive in attesa di qualcosa di meglio». E talvolta qualcosa di meglio arriva. Questa la conclusione di Something Better to Come, il docufilm di Hanna Polak riproposto dal Trieste Film Festival 2021 nella sezione Wild Roses: registe in Europa – Focus Polonia, dopo aver vinto con lo stesso film l’edizione numero 26.
SOMETHING BETTER TO COME: 12 ANNI DI VITA VERA IN UNA DISCARICA
Un lungometraggio che contempera il “miracolo della vita” con, soprattutto, il miracolo di un cinema che la regista polacca spinge fino ai punti estremi della condizione umana, sia essa geografica o fisica, psicologica o sociale. Un lavoro durato dodici anni, nei quali la Polak ha girato all’interno della Svolka, la più grande discarica del mondo, un luogo a tredici miglia dalla Piazza Rossa dove i turisti immortalano, nelle loro foto ricordo, i bambini russi che giocano con le bolle di sapone.
Nella Svolka adulti e bambini invece muoiono colpiti da ogni tipo di malattia, senza che nessuno possa aiutarli o curarli. Perché nella discarica, presidiata dalla polizia, ufficialmente nessuno “abita”; in pratica però, sono a migliaia quelli che non hanno altra possibilità se non quella di passare ogni ora del giorno e della notte circondati da un’infinità di spazzatura che rappresenta il loro unico orizzonte. E tutti con un disperato bisogno di cure mediche.
IN SOMETHING BETTER TO COME LA STORIA DI YULA: A VOLTE ‘DAL LETAME NASCONO I FIOR’
Something Better to Come segue le vicende di alcuni di loro, in particolare quelle di Yula, una ragazzina di 10 anni che sogna una vita fuori da quell’inferno, dentro il quale tuttavia non rinuncia a nessuna delle esperienze tipiche dell’adolescenza; Yula esplora l’amore e cerca di seguire anche la moda, per quanto si possa fare senza condizioni igieniche appropriate e in estrema miseria. La telecamera seguirà lei, il suo contesto e quello che rimane della sua famiglia fino al compimento del suo 23° anno di età, quando il suo futuro potrà assumere un nuovo e più concreto significato alla luce della parola speranza.
La disperazione e la speranza sono le cifre di Something Better to Come, in cui la Polak che ha ripreso luoghi e personaggi senza mai nascondere le sue emozioni e la sua empatia verso di loro, ma senza trasbordare nel pietismo. Ed è proprio questa la grande forza del film e della regista: portare sul grande schermo una realtà estrema, “partecipando” al disagio dei suoi protagonisti, forse per sollevare in qualche modo lo spettatore dal disagio e dalla sofferenza che senza scampo lo sconvolgeranno.
HANNA POLAK E UN’IDEA DI CINEMA ETICA MA NON RETORICA
Lo stesso approccio la cineasta polacca lo aveva dimostrato con la sua precedente opera The Children of Leningradsky, che nel 2004 ottenne una nomination all’Oscar e che filma un gruppo di ragazzi che si prostituiscono nella stazione ferroviaria. Terminate le riprese, infatti, costituì un’associazione per aiutare i giovani che dopo la disgregazione dell’Urss finirono in strada senza più un futuro. Ma ridurre il cinema della Polak al solo valore etico, come dicevamo, è assai riduttivo.
Something Better to Come è un film di grande spessore cinematografico, coraggioso (anche letteralmente, per aver sfidato di continuo i controlli della polizia e aver rischiato l’arresto), ben realizzato perché di grande equilibrio tra la denuncia sociale e, paradossalmente, l’intimità, la riservatezza e perfino la pudicizia del “documento” e delle storie. Empatia e discrezione pervadono quasi due ore di immagini e racconti. La discrezione di una bolla di sapone con cui si apre il film e la stessa di un’altra bolla di sapone che danza nella nuova casa di Yula ormai ventitreenne.