Il regista ungherese Bence Fliegauf ha presentato il suo ultimo lavoro Forest – I See You Everywhere (Rengeteg – mindenhol látlak) in competizione al Festival di Berlino 2021, dove ha vinto l’Orso d’Argento per la Miglior Interpretazione Non Protagonista (intestato a Lilla Kizlinger). Un film a bassissimo budget che pare essere un prosecutore spirituale del Forest (Rengeteg) che il cineasta portò sempre a Berlino nel 2003.
La sua pellicola è un compendio episodico e anarcoide composto da sette piccoli percorsi antropologici, fugaci visioni nelle vite di individui circoscritti circolarmente all’interno dei circa quindici minuti che sono riservati a ogni cellula di questo organismo di umanità.
Forest – I See You Everywhere di Bence Flieagauf lancia scorci su un’umanità spezzata
Quella del film pare essere davvero una sottile quanto resistente tela di ragnatela, come verrà ripetuto da qualcuno un paio di volte, tesa a collegare gli estremi di vite che l’opera tende a presentare come memorie nel cassetto. Lampi, sì, ma anche scorci capaci di colpire come raggi di luce che trovano la loro via attraverso le fessure delle tapparelle, seppur non sempre mantengano lo stesso livello di intensità lungo il percorso.
Sette episodi dicevamo, tutti narrativamente (se di narrazione si può effettivamente parlare) scollegati tra di loro ma tenuti assieme da un fil rouge che è quello del dialogo serrato, della discussione che fluisce quasi sempre senza interruzioni. Quasi sempre, poi, il confronto è quello a due: padre-figlia, madre-figlio, gli amanti, le coppie, dove il punto di raccordo di questi discorsi che vengono vomitati via è lo sguardo che si perde nello sguardo dell’altro, probabilmente l’unico elemento di interpunzione che Fliegauf vuole utilizzare mentre squarcia dall’esterno il velo su queste esistenze.
La camera a mano pressa sui volti nel circoscrivere il qui e ora unicamente sugli emittenti e sui destinatari di questo flusso quasi senza stacchi, lasciato libero di sprigionare i temi cardine della perdita, della caduta delle speranze, delle illusioni. Quello della macchina da presa è un interesse che scende a sfiorare i corpi e le loro micro gestualità, sonde minime in una spazio minimo e claustrofobico dove gli unici punti di fuga possibili sono quelli che il regista offre tramite porte che si aprono e paiono essere regni su un al di là che ospita la vita-dopo-un-trauma.
Forest – I See You Everywhere è affascinante ma non sempre uniforme
Regni di spettri che aleggiano e inseguono perennemente al di fuori di dualità quasi perfette (ci sono un paio di eccezioni e in questi episodi forse l’alchimia non trova un adeguato equilibrio) che si caricano dell’esoterismo di qualcosa che c’era e forse non c’è più, o magari non ci sarà mai. Forest – I See You Everywhere è un caleidoscopio per certi versi sbilenco come può esserlo la vita umana, non una vera e propria condanna al limbo del ricordo ma forse solo un desiderio di disamina sulla crucialità di certi momenti che circoscrivono il prima o il dopo di una rottura, dello spezzarsi di un qualcosa che tiene assieme ed è già logoro.
Il lavoro che il regista tenta di mettere in scena con uno stile che più minimalista non si potrebbe è sicuramente attraente. In alcuni frangenti riesce a fondere benissimo un carattere quasi da seduta spiritica assieme alla natura da pensatoio umano che il film va a ricercare, anche se accostandosi agli ultimi episodi è impossibile non ravvisare una minor tenuta nella tipicità di questi scambi così verbosi. Forest – I See You Everywhere paga un po’ il calo che subisce nella scrittura (sempre a cura di Fliegauf) avvicinandosi alle sue due ore di durata, ma di certo non è privo di un singolare manto di fascinazione.