Quello della regista tedesca Monika Treut con il suo Genderation, film presentato nella sezione documentaristica Panorama del Festival di Berlino 2021, è un percorso che muove i suoi primi passi vent’anni fa. Infatti sempre a Berlino, ma nel 1999, la cineasta aveva presentato Gendernauts, pioneristico viaggio in una San Francisco nel pieno di un fortissimo fermento queer e il cui sottotitolo, A Journey Through Shifting Identities, era emblema del discorso portato avanti immergendosi nelle quotidianità della comunità transgender della città.
Due decenni sono però passati e molte cose sono inevitabilmente cambiate, sfumate via sotto un sempre più repentino mutamento urbano che non è solamente modificazione dello skyline o dei servizi cittadini («prima chiamavi un taxi, adesso prendi un Uber»), ma anche, e forse soprattutto, sfaldarsi di certi tessuti sociali e nuclei di aggregazione identitaria.
Monika Treut e San Francisco dopo vent’anni
La Treut va a ripescare alcuni degli intervistati del suo precedente lavoro (Susan Stryker, Texas Tomboy, Annie Sprinkle, Max Wolf Valerio) interessata a chiudere un cerchio lasciato aperto e che con Genderation rappresenta l’ultimo tassello di un puzzle di vite cambiate in modo anche drastico nel tentativo di stare al passo con i tempi. Il cuore del documentario rimane ben saldo nella San Francisco che viene riconosciuta come il perno di queste esistenze che vi hanno sempre vorticato attorno.
La città non viene mai realmente esplorata negli spazi e nelle forme, ma si pone come un terreno d’incontro ideologico che torna sempre, nei ricordi e nei fugaci inserti di repertorio, come quel fondamentale e ricco humus dal quale un certo tipo di esperienza apparentemente irripetibile è scaturita. È nella San Francisco che negli anni ’90 era realtà elettrica e «clitoride degli USA» che si va a specchiare anche la brutale svolta tecnologica, industriale ed edilizia sotto i colpi della gentrificazione e lo sfaldamento progressivo del senso di una “comunità particolare”.
La tipicità specifica di certi tipi di esperienze nel ventunesimo secolo è spinta sempre più nella centrifuga generalizzatrice della massificazione, e su questo Genderation tenta di far timida leva. Quello di Monika Treut per certi versi appare come un requiem malinconico ma sempre asciutto, lucido, talvolta ridotto ai minimi termini anche attraverso un utilizzo dello stile documentaristico estremamente convenzionale e, anche qui, spoglio delle vesti da battaglia.
Genderation e il requiem di un percorso
Nell’approccio che si contorna dei tratti da rilassata chiacchierata tra vecchi amici (non di rado la Treut invade l’obiettivo con i suoi intervistati) emerge un quadro quasi rassicurante sulla possibilità di una vita che possa configurarsi come di normale inserimento nella società anche per individui che solo vent’anni prima trovavano uno spazio di libertà espressiva all’interno di nuclei ben contraddistinti. Un abbracciare il quieto (non necessariamente) vivere che viene delineato come già avvenuto e già canonizzato, dove le discussioni politiche (l’era Trump è solo sfiorata) e gli attivismi dell’oggi (l’ecosessualità della Sprinkle o l’impegno della Stryker) appartengono alla sfera del “cosa fai di questi tempi?” e non sono mai bacino dal quale attingere per allargare l’orizzonte riflessivo.
Il discorso della costruzione (o decostruzione) identitaria, dove il transgender qui è punto di partenza, è percepito come assimilato nel processo di analisi di Genderation, o quantomeno depositato sul fondo. Sicuramente è un bene a livello di consapevolezza sociale trovare queste persone con un proprio posto, acquisito, nel mondo, ma il lavoro della Treut si priva di una carica di reale interesse che porta a pensare che il tassello mancante è dopotutto quello di mezzo, dello sfiammare del fermento e del mutamento culturale prima che tutto cambiasse in modo definitivo.
immagine di copertina © Salzgeber