Presentato fuori concorso al Festival di Berlino 2021 e disponibile dal 3 giugno su Prime Video, The Mauritanian di Kevin MacDonald è l’adattamento delle libro di memorie di Mohamedou Ould Slahi Guantánamo Diary, uscito nel 2015 e divenuto ben presto un best-seller di caratura mondiale. E quelli di Slahi sono ricordi da un passato non troppo distante, che prendono il via nel tesissimo clima geopolitico del dopo attentato alle Torri Gemelle del 2001 e che rapidamente conducono a una escalation interventista da parte del governo degli Stati Uniti.
Tra le varie azioni militari dubbiamente legittimate e intraprese in Medio Oriente, c’è anche l’altrettanto dubbio (e si saprà, poi, criminale) utilizzo della prigione americana di Guantanamo, nell’estremo sud di uno spicchio di Cuba a controllo USA. Luogo di denigrazione della dignità umana, non-spazio a cavallo tra suolo nazionale e suolo straniero che nella grigia collocazione a livello giuridico e burocratico ha permesso il germogliare di un clima di terrore nei confronti dei suoi prigionieri detenuti senza accusa.
The Mauritanian e Guantanamo, pagina nera della storia USA
The Mauritanian racconta proprio questo attraverso le esperienze dirette di Slahi, additato di essere uno dei reclutatori e punto di contatto per gli organizzatori del tragico 9/11 in cui persero la vita oltre tremila persone. Lo fa partendo dal terminale umano di una madre e di un figlio che non si vedranno mai più, spostandosi rapidamente nel raggio dell’inchiesta e delle scartoffie dove la scena è guidata dall’avvocatessa per i diritti umani Nancy Hollander che prende in carico il caso di Slahi, interpretata da una Jodie Foster che per la parte s’è aggiudicata il Golden Globe alla miglior attrice non protagonista.
Dovere civile e morale senza macchia e senza famiglia, al quale è contrapposto piuttosto debolmente il motore emotivo e personale dell’avvocato militare Stuart Couch, nei cui panni c’è un Benedict Cumberbatch abbastanza impalpabile. Un A contro B classico e senza particolari scossoni, indice di una sceneggiatura a sei mani con M.B. Traven, Rory Haines, Sohrab Noshirvani che raccolgono l’essenziale per andare a contornare con questa cornice il cuore pulsante del film.
Nel mezzo c’è infatti proprio Slahi e i resoconti della detenzione da consegnare ai suoi avvocati e che escono dalla cella sotto forma di documentazione maneggiata, catalogata e opportunamente censurata («per la sicurezza dei dati sensibili»), prima di arrivare in bunker sotterranei dove la consultazione è strettamente vigilata. Siamo un po’ dalle parti del The Report di Scott Z. Burns, film che sempre in questa realtà vorticava e che si faceva molto più asciutto e burocratico, quindi meno facilmente digeribile dal grande pubblico.
L’umanità di Tahar Rahim al fianco di talenti come Jodie Foster e Benedict Cumberbatch
The Mauritanian perde sul discorso della profondità del lato d’inchiesta e rimane più in superficie per fare spazio all’anima emotiva sorretta tutta dalla dolcezza di un incredibile Tahar Rahim. Il suo lavoro di estrema umanizzazione di Slahi guida nei meandri della detenzione di un uomo mai spezzato durante gli oltre quattordici anni di prigionia, dove nel raccontarli MacDonald decide di adottare un formato 4:3 che riduce l’intero campo della vita.
Con le dovute distanze ed accortezze del caso, in questi frangenti la sintassi del film pare adottare la grammatica dell’esclusione come ottimamente fece Il figlio di Saul di László Nemes. Lì la messa a fuoco strettamente selettiva era sintomo di un rigetto della messa in scena dell’orrore, ma il punto di affinità pare essere più che altro nel riflesso di quel fuori campo mai accettato all’interno dell’inquadratura (e quindi coercitivo) che eppure si riflette su ciò che è davanti l’obiettivo.
The Mauritanian ovviamente non ha né quella forza né segue rigidamente quel dogma, ma di certo lavora bene non tanto sulla messa a fuoco ma nel rendere il formato a reale servizio di un discorso fatto di minuscole celle, di blocchi di detenzione squadrati, geometrici, asfissianti. Un discorso che il regista va a mitigare con fulminei inserti di un passato che appare remoto e patinato dallo stato della memoria che nelle violenze subite lega in maniera indissolubile l’onirismo all’allucinatorio.
Probabilmente è questo tipo di azione che emerge in maniera migliore da The Mauritanian, evidentemente non interessato a scavare a fondo nella torbida realtà che lascia ad altri sviscerare più nei dettagli, attenendosi a un codice di immediato contatto empatico che può segnare la buona sorte di un film che ha coscienza del modo in cui vuole colpire più pubblico possibile.
https://www.youtube.com/watch?v=5WJSjln30BQ
immagine di copertina © STX International / TOBIS