Archiviata – si spera – la questione director’s cut di Justice League, con esiti migliori dell’originale del 2017 ma in ogni caso non entusiasmanti, Zack Snyder torna grazie al film Netflix Army of the Dead a cimentarsi con un nuovo universo zombie. Il regista statunitense aveva infatti esordito alla regia andando a fare niente di meno che il remake de L’Alba dei Morti Viventi della leggenda George Romero, rivisitandolo a suo modo.
Un modo che fan e detrattori di Snyder hanno imparato a conoscere bene nel corso degli anni, caratterizzato da uno stile cinematografico spesso opulento e condito da stilemi registici votati in tutto e per tutto alla spettacolarizzazione dell’immagine. Slow-motion, intervento massiccio del digitale, accento insistito sulla dilatazione dei tempi action. E non paiono esserci mezzi termini nell’incontro-scontro con questa firma ben precisa, piace o non piace.
CON ARMY OF THE DEAD ZACK SNYDER REINVENTA ANCORA LO ZOMBIE MOVIE
Vige la regola dell’immagine cacofonica e caricaturale, com’è reso ben chiaro dai primi minuti di Army of the Dead dove, ancora ricalcando uno stile ben consolidato, vengono introdotti la rosa di protagonisti e i loro abbozzati background come se fossero i personaggi disponibili alla scelta prima di una partita a Tekken. Ecco, dove siamo? Nei dintorni di una Las Vegas invasa dagli zombi di un futuro prossimo, contaminata in seguito alla fuga di un esemplare sperimentale dell’esercito.
Siamo in una città del peccato e della perdizione colpita da una calamità ben poco divina – nonostante nel corso del film ci siano anche Sodoma e Gomorra – con due palazzi nel cuore della strip che conservano ancora un gran quantitativo di denaro in cassaforte e con briciole di pane disseminate per avviare un franchise già annunciato (è in lavorazione il prequel). Quel ‘tesoro’ va recuperato, così tocca allo Scott Ward del capobranco Dave Bautista mettere assieme un team di mercenari per un rapido in & out nella terra degli zombi. Ma gli interessi in gioco saranno ben presto altri mentre sulla città penderà la scure di un dispositivo atomico che verrà fatto brillare nell’arco di 24 ore.
SE ARMY OF THE DEAD TARDA A PARTIRE, LE SCENE D’AZIONE SONO DI SICURO EFFETTO (MA POTREBBERO ESSERE DI PIÙ)
La struttura narrativa si trova chiaramente dalle parti di 1997: Fuga da New York, seppur il tutto venga condito da Snyder, in sceneggiatura assieme a Shay Hatten e Joby Harold, da innesti di carattere emozionale, con dinamiche familiari forse sentite ma ben poco coinvolgenti. Siamo alla soglia della prima ora del film quando mettiamo piede, molto cautamente, dentro la Las Vegas infestata dalle creature non morte. E Army of the Dead di ore ne dura complessivamente circa due e mezza. Sembra insomma che in questa prima porzione di film non sia accaduto nulla di particolarmente significativo, se non l’arruolamento dei membri di un team eterogeneo che conta tra gli altri Omari Hardwick, Ana de la Reguera, Theo Rossi, Matthias Schweighöfer (dirigerà il prequel), Nora Arnezeder ed Ella Purnell.
Per dare fuoco alle polveri il film di Snyder impiega davvero molto tempo e quando le cose iniziano a movimentarsi un po’ il tutto dura troppo poco e ricade nuovamente in una sorta di stasi, di sospensione non si capisce bene da cosa. Qui c’è da spezzare una lancia, perché c’è quantomeno da ammettere la buona fattura di queste sequenze action e particolarmente splatter inserite all’interno di una cornice squisitamente pop, ben riuscite sotto la direzione di uno Snyder per la prima volta come direttore della fotografia e in qualche maniera più contenuto, più lucido rispetto al passato.
ARMY OF THE DEAD, IL FILM NETFLIX SUGLI ZOMBIE CON DAVE BAUTISTA, CREA UNA SUA MITOLOGIA
Di buono c’è anche la capacità del regista di conferire ad Army of the Dead un carattere quasi mitologico in alcuni frangenti, andando a lavorare sul valore del simbolismo e della natura del super-uomo acquisita con l’esperienza con il mondo DC e qui declinata nelle figure degli alpha, zombie evoluti, forti, intelligenti. Si possono rintracciare alla lontana influenze come quelle di Io sono leggenda di Richard Matheson nello spazio che viene dedicato alla società zombie e alla volontà di stabilire un nuovo stadio evolutivo, nuovi dei decaduti e decadenti raccolti in un hotel chiamato Olimpo. Ma sono appunto attimi, caratterizzazioni alla fine epidermiche alle quali dare il giusto peso e non oltre.
Non giustificano insomma il vuoto che pervade un film estremamente lungo e per lo più riempito da dinamiche familiari o affettive spesso verbose e sui generis. D’altronde anche l’umorismo che scorre tra i vari membri del team vive di alti e bassi, a causa soprattutto di personaggi molto meno riusciti e interessanti di altri. Si galleggia sonnecchiando nell’attesa di uno scossone, di uno shock che arriva ma davvero troppo tardi a ridosso del finale e nemmeno con un’intensità abbastanza alta da poter offuscare tutto il minutaggio sprecato in precedenza.
È francamente un peccato doversi accontentare di qualche fiammella qui e lì, perché cose buone Army of the Dead le fa vedere e invoglia a vederne di più. Funziona quindi più come mito fondativo che come impulso d’intrattenimento a sé stante, il che è un problema e una delusione per chi da una libertà creativa come quella concessa qui da Netlflix a Zack Snyder si attendeva qualcosa di più incisivo.