La terza stagione de Il metodo Kominsky (The Kominsky Method), ideata da Chuck Lorre, è arrivata su Netflix il 28 maggio 2021. Dopo i due Golden Globe vinti nel 2019 dalla serie, la chiusura giunge con l’inaspettata assenza di Alan Arkin.
IL METODO KOMINSKY E IL RISPETTO DEL CANONE CLASSICO
L’elogio funebre di Sandy Kominsky (Michael Douglas) al suo caro amico Norman è il triste esordio della terza stagione. Tuttavia, per una serie che tanto fortemente affonda le radici nella teoria e nel metodo, più che nella prassi attoriale, il riferimento al canone classico del teatro non può che essere più diretto. L’inizio tragico e il finale lieto sono, infatti, apertura e chiusura dello script. C’è molta astrazione teorica, molta contemplazione, tanta meta-esistenza e molta eleganza classicista in Il metodo Kominsky (The Kominsky Method). Questo, tuttavia, si definisce all’interno di una spinta all’innovazione che rende il lavoro di Lorre umanamente profondo.
LA SERIE DI LORRE E IL TEMA DELLE RELAZIONI UMANE
La polivalenza delle relazioni umane, il loro continuo andirivieni sono al centro dell’esistenza del maestro Sandy. Il metodo Kominsky (The Kominsky Method) sa ben rappresentarle, spingendosi così profondamente nella loro realtà da diventare politicamente scorretto. Lo fa con un’irriverenza così naturale, tanto da sferrare un doppio colpo alla “bella” Hollywood. Forte è il sotto-testo di una critica al cinema attuale, con il suo tentativo esacerbato di annullare gli stereotipi. Un linguaggio eccessivo, che compromette addirittura la qualità lineare dello script. Di questo, Sandy Kominsky e Morgan Freeman chiacchierano, rimpiangendo i tempi andati e la fatica di stare al passo con la contemporaneità. Qui, un’ulteriore operazione meta-filmica messa in atto in Il metodo Kominsky (The Kominsky Method).
IN IL METODO KOMINSKY LA LINEA FRA VITA E RAPPRESENTAZIONE DIVENTA SEMPRE PIÚ SOTTILE
Le storie si contaminano. Le lezioni del maestro tendono ad assottigliare sempre più la differenza fra il palcoscenico e la vita reale. Il teatro diventa terapia esistenziale, esplosione emotiva, bilanciando il principio di realtà che corrisponde all’imposizione e al controllo. La teoria sullo studio del personaggio e sulla recitazione diventa, perciò, un fatto totalizzante, come lascia intendere anche quella forte assonanza fra Il metodo Kominsky (The Kominsky Method) e il metodo Stanislavskij.
CHUCK LORRE: LA STAGIONE FINALE BELLA, MA IMPERFETTA
Nonostante questa completezza di significato, interpretazione e stile, la terza stagione sul finale assume un andamento claudicante. Sarà forse la necessità di stringere la storia volendo fornire un giusto finale, ma i salti temporali disturbano non poco. Rispetto a quel ritmo strascicato – emblema forte della terza età – che è anche riflessione da filosofia dell’esistenza, la chiusura serrata della terza stagione e la sua velocizzazione amareggiano un po’ lo spettatore, abituato a una ritmica che rivendica tempo e lentezza. Tuttavia, questo non fornisce il movente per delegittimare la qualità del prodotto di Lorre. Con la dolcezza della commedia si era aperta e con questa dolcezza il sipario si chiude. La terza stagione riserva belle soprese (anche se manca molto la coppia Arkin-Douglas che duettava così bene), ma non abbandona mai un tema che per Il metodo Kominsky (The Kominsky Method) è così presente e chiaro: la morte.
“PER I MORTI, I VIVI SONO IRRILEVANTI”: IL METODO KOMINSKY E LA TANATOLOGIA
Quel tema è forte e ricorrente, banco di prova della condizione umana degnamente vissuta. In qualche modo, ogni azione diviene una performance destinata a lasciare il segno. Il metodo Kominsky (The Kominsky Method) si chiede come questo possa avvenire. Forse non è la vittoria di un Oscar che esaurisce il valore dell’identità, ma come si decide di agire prolungando la propria presenza nel mondo. Norman Newlander (Alan Arkin), in fondo, non è stato mai così presente come nella terza stagione. Lascia a Sandy i soldi, l’affetto e un’ultima occasione che accompagnerà l’amico verso la sua più alta affermazione scenica. Proprio l’atto altruistico, vissuto nella consapevolezza della morte, diventa l’oggetto fondante nello script. Un atto che eternizza la memoria, distendendo il senso delle relazioni umane oltre il tempo e lo spazio della semplice presenza fisica. Questo, a discapito dell’idea che per i morti i vivi sono irrilevanti.