Gli americani intervengono dove c’è’ bisogno “perché il rapporto con i popoli è sempre un’opportunità”. Il concetto viene ribadito da Michael Bay nel suo ultimo film 13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi. L’approccio del regista non è neanche lontanamente, come in altri film bellici made in Usa, quello analitico sulle ragioni interventiste e non ambisce a giudicare alcunché.
Come dire: questa è la realtà e questo vi racconto.
Tuttavia Bay riserva critiche, neanche tanto nascoste nelle pieghe del film, a Hilary Clinton, che durante l’amministrazione Obama ha avuto un ruolo attivo e di primo piano rispetto ai fatti narrati come titolare del Dipartimento di Stato (all’epoca dei fatti qualcuno la accusò di aver insabbiato le falle sull’organizzazione dei servizi di sicurezza in Libia). La visione della vicenda si avvicina molto a quella della tradizione della destra americana, secondo la quale vale quasi sempre la pena di pagare il prezzo di un intervento militare per avere un mondo “democratico, prospero e libero”, ma Bay riesce a metterla in scena con un’indipendenza inaspettata e contenendo gli eccessi di retorica.
I soldati americani vanno in missione con tutte le loro debolezze, le loro fragilità, le loro nostalgie e la paura di perdere i loro affetti più cari ma quando cadono in un’imboscata con tanto di fucili spianati contro non esitano a sfidare il capo del commando: “Quanto sei pronto a morire per il tuo Paese? Io sono disposto già adesso”. Sudano freddo ma sono liberi. E con loro anche l’America.
Qui siamo a Bengasi, Libia, e il film ci riporta a fatti realmente accaduti nel 2012.
Partendo dall’uccisione di Gheddafi, Michael Bay ci introduce dentro i nuovi scenari creati dalla drammatica uscita di scena del dittatore. Da una parte i bambini che giocano cavalcioni sopra il cannone dei carri armati, dall’altra un popolo, quello libico, frammentato, con fazioni che si moltiplicano, l’una sospettosa dell’altra, tutti contro tutti. Una squadra di Guardie di sicurezza, reparto che opera in appoggio e su disposizioni della Cia, ha il compito di proteggere l’appartamento dell’ambasciatore statunitense e una base segreta americana, che la Cia aveva strategicamente stabilito in incognito a ridosso di una vecchia porcilaia. Evocativo il nome della base: “Zombilandia”. Il Consolato e la base però vengono attaccati, si chiede l’aiuto aereo da Sigonella che non arriva, la difesa delle forze statunitensi è strenua ma qualcuno ci rimette la vita, compreso l’ambasciatore Chris Stevens. Era l’11 settembre del 2012. La data vi ricorda qualcosa?
È un film d’azione e di guerra, sul filone dei film bellici americani.
Certo, non c’è l’impiego del napalm e “Charlie” non è mimetizzato nella foresta. Qui ci sono droni e satelliti e il nemico “è in mezzo a noi”, in città, dove non si distinguono i buoni dai cattivi. Ma gli ingredienti canonici dell’epica interventista americana ci sono tutti, e Michael Bay li maneggia con padronanza e furbizia. C’è il soldato che ha lasciato in patria la moglie incinta, c’è quello che si commuove quando parla con i figli via skype, nel bel mezzo del combattimento c’è il senso di isolamento (“tutti sanno cosa sta succedendo tranne noi”) e c’è la battuta sdrammatizzante (“pensavo di avere una serata tranquilla”), ci sono i “rimpianti” per le guerre precedenti (“In Iraq c’era sempre qualcuno che ci tirava fuori dalla merda, qui non abbiamo niente e nessuno”) e momenti di umanità (“Non sparo ai bambini”), fino all’immancabile “ritorneremo a casa, te lo prometto”.
Le interpretazioni sono misurate anche se talvolta si ha la sensazione che il doppiaggio le penalizzi. In compenso le oltre due ore di pellicola passano piacevolmente, con tanta azione, tanti proiettili e tanti spettacolari combattimenti notturni. Nulla di nuovo, dunque, nella Bengasi di Bay, quantomeno nulla che non sia già stato visto prima. Nonostante ciò l’assoluto merito di 13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi è quello di aver riportato a galla una brutta e dolorosa storia recente e averla spiegata con un’onestà intellettuale di fondo che va assolutamente riconosciuta al regista. Nel finale il film documenta l’avanzata dell’Isis, ma questa è un’altra storia.