“Il caso non si vince con le prove, i giurati preferiscono un racconto che abbia senso. Siamo qui per raccontare una storia. Il nostro lavoro è raccontare quella storia meglio di come l’altra parte racconterà la sua”: l’essenza di quello che in America è ancora considerato “il processo del secolo” e, di conseguenza, il pilastro su cui si poggia American Crime Story: The People vs O.J. Simpson sta tutto nelle parole di Johnnie Cochran, uno degli avvocati difensori del celebre ex campione di football.
Se in questi anni nella televisione americana c’è stata una proliferazione di serie antologiche (da True Detective a Fargo, solo per citare le più importanti) lo si deve in particolare ad un uomo di nome Ryan Murphy, che con la sua creatura, quell’American Horror Story così seguita e criticata, ha aperto la strada a questo tipo di format. Se devo però dire la verità, leggere il suo nome legato a questo nuovo progetto mi ha un pò preoccupato perché, nonostante abbia diretto qualche anno fa il pluripremiato film tv HBO The Normal Heart, ultimamente i suoi prodotti televisivi hanno deluso molto i telespettatori (AHS: Freak Show, AHS: Hotel e Scream Queens non sono stati proprio dei grandi successi di pubblico e di critica); tuttavia i presupposti per far sì che American Crime Story: The People vs O.J. Simpson, in onda su Fox Crime dal 6 aprile, fosse una bomba c’erano tutti. E, signori, qui siamo di fronte alla novità televisiva più importante di questo inizio 2016, senza se e senza ma.
Ideata da Scott Alexander e Larry Karaszewski (i veri showrunner della serie), questa prima stagione racconta tutte le fasi del caso O.J. Simpson.
Non viene tralasciato nulla nella narrazione: il ritrovamento dei cadaveri della ex moglie Nicole Brown e del cameriere venticinquenne Ron Goldman, l’inseguimento in autostrada da parte della polizia di Los Angeles, l’arresto e il conseguente processo fino alla controversa sentenza (per chi non conoscesse la vicenda, eviterò di dire come andò a finire). Chi però pensa che American Crime Story sia semplicemente una mera cronaca romanzata di quello che successe si sbaglia di grosso perché il vero intento degli autori non è quello di dire la loro sulla presunta innocenza o colpevolezza di O.J. Simpson ma, piuttosto, quello di descrivere ciò che successe attorno a quel processo, che finì per influenzare pesantemente il verdetto finale.
In particolare sono tre le tematiche fondamentali che Alexander e Karaszewski analizzano con attenzione in ACS: la questione razziale, l’opinione pubblica e la giustizia penale americana (l’ordine delle tematiche non è casuale).
La questione razziale. Come riuscire ad affrontare un procedimento che sembra già essere perso in partenza, date le prove schiaccianti in mano all’accusa? Il team di avvocati di O.J. Simpson (interpretato da Cuba Gooding Jr.) ha la soluzione: fare leva sul colore della pelle del loro cliente. La prima scena del pilot di ACS mette subito in chiaro il contesto in cui ci troviamo: vediamo infatti delle immagini di repertorio di quella che divenne famosa come la Rivolta di Los Angeles, una sommossa a sfondo razziale scoppiata nella città californiana due anni prima del processo Simpson causata dall’assoluzione di quattro poliziotti che, l’anno prima, avevano malmenato un tassista afroamericano di nome Rodney King (il filmato del pestaggio aveva fatto il giro dei network più importanti). Il tema della discriminazione razziale negli USA è da sempre estremamente sensibile e, in un clima già incandescente, gli avvocati capitanati da Robert Shapiro (John Travolta) e da Johnnie Cochran (uno straordinario Courtney B. Vance) riescono nell’impresa titanica di imbastire un’efficace difesa giocando la carta della questione razziale, gettando ulteriore benzina su quel fuoco potenzialmente destabilizzante e mettendo in questo modo in seria difficoltà l’accusa guidata da Marcia Clark (una grandissima Sarah Paulson) e da Christopher Darden (Sterling K. Brown) che, nonostante tutte le prove e i testimoni a loro disposizione, avranno vita difficile in tribunale. L’obiettivo primario della difesa, non avendo altri appigli, è quello infatti di fare breccia sull’opinione pubblica e sui giurati.
L’opinione pubblica. Si sa, quando ci sono dei casi giudiziari molto eclatanti, i mass media, per accontentare lettori e spettatori, ci si buttano a capofitto (in quegli anni, in Italia, Tangentopoli aveva monopolizzato l’opinione pubblica). Ma nessun processo al mondo ha avuto la stessa attenzione mediatica di questo: dirette tv, editoriali sui giornali, libri, retroscena (anche velenosi) sui protagonisti, servizi sui rotocalchi. La difesa di Simpson sapeva bene di avere gli occhi dell’America e del mondo addosso ed è per questo motivo che giocarono la carta razziale, per condizionare l’opinione pubblica (soprattutto quella afroamericana) e per mettere sotto pressione accusa, giuria e il giudice Ito (Kenneth Choi), riuscendoci alla grande. American Crime Story riesce a descrivere, con grande dovizia di particolari, tutto ciò che fu quel caotico e morboso circo mediatico, ricordandoci anche come questo abbia prodotto degli effetti collaterali decisamente deleteri e di cattivo gusto. Volete sapere da dove nasce il grande successo delle sorelle Kardashian e Jenner? Proprio seguendo la scia di questo caso giudiziario: la madre delle sorelle Kardashian/Jenner, Kris Jenner (interpretata da Selma Blair nella serie), ex moglie del migliore amico di O.J Simpson ed avvocato Robert Kardashian (David Schwimmer, il mitico Ross di Friends), sfruttò il clamore suscitato dal caso per creare negli anni, grazie a quella visibilità, un impero (mediatico e no) multimilionario.
La giustizia penale americana. I tribunali, pur essendo dei luoghi dove l’imparzialità di giudizio è la regola, non sono dei luoghi completamente impermeabili a ciò che succede al di fuori delle aule. Immaginate quindi un sistema giudiziario penale come quello americano, basato sulla giuria popolare, trovarsi di fronte al “processo del secolo”. Il discorso è semplice: prendete un processo incentrato non sulle prove ma sulla questione razziale, unite la pressione dei mass media di tutto il mondo e sottoponete tutto questo ad un giudice sotto assedio e ad una giuria popolare a prevalenza afroamericana. Qui i due showrunner sono chiari: il processo, a causa di questi elementi, è stato fortemente distorto e il sistema giudiziario americano, considerato un baluardo della giustizia e della democrazia, non è stato all’altezza del compito (e chi critica il sistema giudiziario italiano, consiglio vivamente la visione di ACS).
Sulla realizzazione della serie c’è poco da dire: la serie è scritta e diretta in maniera meravigliosa, ha una tensione degna dei migliori thriller di stampo hitchcockiano (e per una vicenda conosciuta come questa, è un valore aggiunto) e il cast, se escludiamo forse Schwimmer (non sempre all’altezza dei suoi colleghi), fa un lavoro straordinario (la Paulson e Vance sono già in odore di Emmy quest’anno).
Vorrei chiudere con un’osservazione: l’anno scorso Sky fece debuttare un prodotto molto simile ad American Crime Story ovvero 1992, la serie sui fatti di Tangentopoli; dopo la visione della serie di FX, il rammarico per una serie che poteva essere benissimo la nostra ACS è ancora più grande. Non si può ottenere quell’eccellenza se c’è troppo autocompiacimento (nella recitazione e nella scrittura), troppa autocensura, troppa ricerca della scena shock fine a sé stessa e troppo pressapochismo nella realizzazione globale. Ecco perché spero che ACS abbia successo anche in Italia, per permettere agli autori di 1992 di capire gli errori fatti e indirizzare il suo seguito, 1993, sulla strada tracciata dalla serie antologica americana.