C’è una sorta di grazia invisibile nella prosa cinematografica di Mia Hansen-Løve, regista di Sull’Isola di Bergman. Un dispiegarsi di piccole vicende umane che a volte possono apparire ingannevolmente semplici ma che in realtà sono capaci di conquistarci e farci sospirare, come fossimo travolti da una valanga sentimentale complessa e stratificata.
La cineasta di Parigi – già critica per i Cahier du cinema e allieva nonché attrice ed ex-compagna di Olivier Assayas (Personal Shopper) – aveva già stupito pubblico e critica a Cannes 2009 (Il padre dei miei figli vinse il premio speciale della giuria nella sezione Un Certain Regard) e a Berlino 2016 (Orso d’argento alla miglior regia per Le cose che verranno).
Con Sull’Isola di Bergman (prima opera in lingua inglese presentata in anteprima italiana al Torino Film Festival) porta a compimento una traiettoria autoriale notevolissima, sfornando uno dei film più sofisticati dell’anno e, forse, il migliore della sua filmografia.
Sull’Isola di Bergman ovvero a Fårö, ultima casa del grande autore svedese
Il film di Hansen-Løve parte (come da titolo) dall’isola svedese di Fårö di cui si innamorò Ingmar Bergman e dove il regista decise di trasferirsi definitivamente dopo aver diretto Come in uno specchio nel 1961. Sull’isola decidono di andare a lavorare per un breve periodo di tempo una coppia di artisti: Tony (Tim Roth, Sundown), un regista di fama internazionale, e Chris (Vicky Krieps, Il Filo Nascosto), la sua compagna più giovane, anche lei regista e sceneggiatrice ma meno affermata del partner.
Entrambi vedono “l’Isola di Bergman” come una potenziale fonte di ispirazione, tra mulini a vento, spiagge e musei dedicati al grande regista svedese. Eppure, dopo un po’, iniziano inavvertitamente a scivolare in una sorta di variazione di un classico di Bergman: Scene da un matrimonio. Mentre si fanno strada attraverso l’isola – Tony fa il turista e Chris preferisce la compagnia di un giovane studente di cinema (Hampus Nordenson) – emergono infatti sottili difficoltà di convivenza, legate anche al fatto che Chris non riesce a completare la sua sceneggiatura.
In piena crisi d’ispirazione Chris decide di coinvolgere Tony nella scrittura, raccontandogli lo script che ha in testa. È la storia di una giovane regista americana, Amy (Mia Wasikowska, Piercing), che arriva su un’isola (“un posto come questo”, dice Chris) per partecipare al matrimonio di un amico e sperare di riaccendere una relazione con il suo primo amore, Joseph (Anders Danielsen Lie, 22 Luglio).
Sull’Isola di Bergman è un film sui nostri fantasmi
A scanso di equivoci – e nonostante l’impianto smaccatamente metacinematografico – non è un film che omaggia, cita o approfondisce il lavoro di Ingmar Bergman e se qualcuno se lo sta chiedendo non serve conoscere la sua filmografia per intraprendere un’escursione dentro a questo film. L’autore svedese è solo una presenza non mostrata, una sorta di spettro che fa parte di tutto il corollario invisibile che pervade la storia.
Sull’Isola di Bergman è invece e soprattutto un film di fantasmi (ricordi, presenze latenti, desideri) e più che l’eredità bergmaniana ad Hansen-Løve interessa raccontare come questi fantasmi (gli stessi che percepiva Bergman) prendano forma mentre cerchiamo di creare qualcosa (in vita o nell’arte, non importa). Chris ha il talento infatti di sentire i fantasmi che la circondano: riesce a percepire i personaggi di Scene da un matrimonio oppure lo spirito di Ingrid von Rosen, la quinta e ultima moglie di Bergman, la cui morte spinse il regista ad avere di nuovo fede nell’aldilà.
Ma a Chris manca qualcosa per attraversare completamente quelle sensazioni e per farle proprie, come ci fosse un limite invalicabile fra ispirazione e realizzazione (da qui la sua difficoltà a chiudere la sua sceneggiatura). Anche quando cerca di materializzare, cercandoli in giro per l’isola, i luoghi fisici in cui furono girati alcuni film di Bergman, scopre che sono luoghi che non esistono, creati ad arte per la finzione cinematografica.
Il film dentro al film de Sull’Isola di Bergman
Mentre insomma il compagno Tony ha una sensibilità più pragmatica, tiene interviste, firma autografi e partecipa ai giri più turistici dell’isola (fra cui il Bergman Safari), Chris percepisce dei fantasmi che la mettono in crisi e decide di esplorare l’isola con uno sguardo più personale. È una crisi artistica che però riflette qualcosa di più. E se c’è spazio anche per una critica femminista sul ruolo delle donne nel cinema (in una scena Chris si chiede se la società le avrebbe mai permesso di essere una regista e contemporaneamente avere nove figli da sei diversi partner come accade a Bergman ai suoi tempi) la protagonista capisce che è necessario uno slancio più coraggioso per confrontarsi con quei fantasmi che popolano l’isola.
È qui che per Hansen-Løve arte e vita si intrecciano irrimediabilmente e al film che stiamo guardando ne connette un altro al suo interno, quello che racconta i tre giorni che la protagonista Amy passa sulla stessa isola incontrando il suo primo amore. Dopotutto “io amo due persone”, suggerisce Amy in una scena, quasi a giustificare questo doppio racconto in cui le due protagoniste, Krieps e Wasikowska, si fondono e si confondono, si scambiano oggetti e persino costumi di scena, completandosi a vicenda come in un duello fra camaleonti. Tutto questo fino ad un terzo atto in cui veniamo posti in un ulteriore punto di osservazione meta-cinematografico, con la quarta parete che crolla e con le barriere fra le due storie che vengono abbattute.
LA SPIEGAZIONE DEL SIGNIFICATO FINALE DE L’ISOLA DI BERGMAN
Ecco allora che capiamo come il fantasma di una relazione nella vita reale ispira una relazione immaginaria che a sua volta fornisce materiale per ricalibrare la propria vita. Nel suo finale, tutt’altro che risolutivo (ma meno infelice di quelli di Bergman), capiamo che Hansen-Løve sta ammiccando anche alla sua relazione con Olivier Assayas, conclusasi nel 2017 e da cui hanno avuto una figlia. Dopotutto Amy, la regista inventata da Chris, è interpretata da un’attrice che si chiama come la regista (Mia), mentre la figlia di Assayas e Hansen-Løve, Vicky, ha lo stesso nome della Krieps che interpreta Chris.
Fotografato meravigliosamente dallo storico collaboratore Denis Lenoir e montato da Marion Monnier, Sull’Isola di Bergman ha un fascino quasi magico che ci trasporta dentro una storia che ne contiene altre ma che in fondo è sempre e solo una. E se le inversioni di marcia e le svolte del film sono un piacevole labirinto narrativo in cui giocare a districarsi, il messaggio che veicola la riflessione di Hansen-Løve è molto più semplice ma tutt’altro che scontato: le esperienze, i ricordi e le emozioni di un artista (che sia Bergman, Chris, Amy o Hansen-Løve) finiranno sempre per essere percepite come presenze che chiederanno di rinascere nella sua arte, anche quando quelle creazioni fantasiose sono dolorose e fanno male (come i film di Bergman per Chris).
Tanto vale dunque confrontarsi con questi fantasmi: che siano amori passati o film che abbiamo visto e ci hanno fatto soffrire. Ignorarli significa solo togliere profondità alla vita ma anche all’arte plasmata su di essa. L’isola di Bergman è quel luogo della mente e del cuore che prima o poi noi tutti dovremmo visitare per fare i conti con i nostri spettri. E magari per imparare a convivere pacificamente con loro.
Sull’Isola di Bergman viene distribuito nelle sale italiane da Teodora Film il 7 dicembre 2021.