Lightyear – La vera storia di Buzz, 26° lungometraggio, Pixar è il primo essere distribuito in sala dopo Onward nel 2020. A causa della pandemia, infatti, Soul (2020), Luca (2021) e Red (2022) sono stati rilasciati direttamente in streaming su Disney+.
Con questo spin-off Pixar punta sulla origin story di uno dei personaggi più amati del suo universo, a ventisette anni dal suo debutto in un film che ha segnato la moderna industria cinematografica. Infatti Toy Story, uscito nel 1995, non solo è il primo film di animazione firmato Pixar ma è anche in assoluto il primo film animato interamente in CGI (ve ne abbiamo parlato qui).
La storia di Buzz, qui ovviamente non più un giocattolo ma in piena modalità Space Ranger, è affidata ad Angus MacLane. Il regista aveva già co-diretto Alla ricerca di Dory (2016). Eppure nella grande famiglia Pixar bazzicava già dal 1997. Animatore per A Bug’s Life (1998), Toy Story 2 (1999), Gli incredibili (2004), Up (2009).
Era stato John Lasseter, a dirigere i primi due capitoli di Toy Story, la cui eredità è poi passata nelle mani di Lee Unkrich (Toy Story 3, 2010) – con Lasseter sia in co-regia. Quindi, il salto di ben nove anni verso la chiusura della tetralogia con Toy Story 4 (2019), diretto da Josh Cooley. Lightyear inaugura un’altra prospettiva del mondo Pixar, che apre un’ontologia separata rispetto a quella dei giocattoli antropomorfi.
DI COSA PARLA LIGHTYEAR? LA TRAMA DEL FILM
Per evadere da un mondo ostile, Buzz Lightyear (nell’originale con la voce di Chris Evans) decide di affrontare un viaggio interstellare utilizzando l’ipervelocità. A causa dei salti temporali dovuti a diversi voi di prova, il giovane space ranger si trova 62 anni avanti nel futuro. Grazie all’aiuto di Izzy (Keke Palmer), Alisha (Uzo Aduba) e il pet-robot Sox, Buzz deve trovare il modo di ricostruire la frattura temporale e salvare i superstiti dall’invasione dei robot al comando dell’imperatore Zurg.
“MACLANE AL COMANDO STELLARE. PASSO!”: DA QUANDO ESISTE L’IDEA PER LIGHTYEAR?
L’origin story di Lightyear era nel cassetto da più di 6 anni. Dopo aver co-diretto Alla ricercar di Dory e avendo in precedenza lavorato sulla serie spin-off Buzz Lightyear of Star Command (2000-2001), MacLane lancia alla Pixar la sfida di un lungometraggio interamente dedicato a Buzz.
L’idea è quella di uno sci-fi in CGI. Carne da mettere sul fuoco ne ha parecchia. Si ricordi, infatti, che anche qui siamo su un problematico rapporto padre-figlio, Zurg-Buzz che citava e omaggiava quello ben più noto Darth Vader-Luke Skywalker. E MacLane, non a caso, è un fan sfegatato della saga di Star Wars (1977).
Il tutto si regge su un’operazione meta-filmica che apre Lightyear in in una (irrimediabile) connessione con Toy Story. Il film Lightyear che stiamo guardando in sala sarebbe quello preferito di Andy (il bambino di Toy Story) e da cui trae ispirazione il famoso giocattolo.
STAR WARS ISPIRA E SOSTIENE LIGHTYEAR
Per lavorare sull’animazione di Lightyear, si prende spunto da quelle tecniche di produzione tipiche degli anni ’70-’80 e con cui MacLane è cresciuto. Per farlo, gli animatori chiedono all’azienda di effetti speciali Industrial Light and Magic – fondata nel 1975 da George Lucas – di costruire un modello di nave spaziale da cui trarre ispirazione per i disegni. Il modello rimane Star Wars, ma senza eccesso di imitazione. Questo, nonostante sequenze, aspetti grafici e fotogrammi che diventano un omaggio esplicito alla saga.
Per Lightyear viene anche richiesto l’aiuto a due astronauti (Thomas Marshburn e Kjell Lindren). La ricerca Pixar si è estesa alle modalità di sopravvivenza di un’astronauta nello spazio, oltre che ad una visita alla NASA.
SU LIGHTYEAR UN PO’ DI CONFUSIONE: IMMAGINARIO O REALE?
Se Disney e Pixar sono attente ai dettagli, la curva dell’immaginario si avvicina sempre di più al realistico, a discapito di alcune scene improbabili che contraddicono questo scopo da cui il senso di straniamento.
Se si vuole trovare un primo problema in Lightyear è proprio legato a questa confusione e indecisione in alcuni punti. Tutto è alla vertigine del realismo ma è pur sempre impensabile che Buzz tenti di frenare a mani nude un’astronave nello spazio, tra l’altro in rotta di collisione con un pianeta.
Sì, siamo pur sempre in un lungometraggio animato, ma se la declinare Buzz in maniera il più possibile reale è il tentativo di Lightyear, MacLane commette qualche gaffe. Pare manchi il senso di una distinzione fra il futurismo immaginifico da science fiction e ciò che dovrebbe rimanere umanamente fattibile.
RIDISEGNARE UN’ICONA: LO ZURG DI LIGHTYEAR TRA MANGA E ROBOT
Stesso principio vale per il design di Zurg – interpretato da James Brolin (Amytiville Horror, 1979, Prova a prendermi, 2002). Come nel caso di Buzz, che mantiene il concept art originale con le dovute aggiunte per renderlo più realistico (voce inclusa, ne parleremo fra poco), Zurg necessita di rifiniture che lo facciano risultare maggiormente verosimile e in linea con un prodotto che aspira ad essere più sci-fi che animazione. Deve anche essere un personaggio minaccioso.
Ecco che allora su Zurg convergono sia ispirazioni dal mondo dell’anime (da Goldrake agli “Eva” di Neon Genesis Evangelion), sia uno stile da super-robot. Metà umano, metà robot proprio come la condanna “a metà” del Darth Vader da cui, come si è visto, Lightyear trae ispirazione. Buona la riscrittura narrativa del ruolo di Zurg, decisamente più originale rispetto ad altri aspetti della storia.
BUZZ LIGHTYEAR COME NUOVO CAPITAN AMERICA
Mento grosso ma importante. Fisico allenato. Castano con occhi chiari. Per rappresentare uno scultoreo Buzz, chi meglio di Chris Evans (Captain America, 2011; Snowpiercer, 2013; Avengers: Endgame, 2019; Don’t Look Up, 2021) poteva prestare la propria voce, per innalzare un giocattolo a icona nazionale? È MacLane che ha le idee chiare su Evans e palesa le sue intenzione a monte del progetto.
Tim Allen, voce originale di Buzz nella quadrilogia di Toy Story, viene accantonato, seppure rimanga una fonte di ispirazione. Il tono di Allen è goffo, comico e non si addice al personaggio, ora centrale, che è chiamato a essere eroe d’azione. Questo è necessario a tagliare il cordone ombelicale da Toy Story, per rimarcare che Lightyear rappresenta qualcosa di letteralmente diverso.
Buzz è ancora il personaggio di cui ci siamo innamorati in Toy Story. In Lightyear, però, gli si richiede maggiore serietà, maggiore responsabilità. Non è un giocattolo, è un eroe che è chiamato a salvare i propri simili. “Chris Evans ha la gravitas – afferma MacLane – e quella qualità da star del cinema di cui aveva bisogno il personaggio per separare lui e il film dalla versione giocattolo di Tim [Allen] in Toy Story”.
QUEL BACIO GAY E LA POLEMICA INTERNA ALLA PIXAR
Da sempre la The Walt Disney Company fatica a introdurre esplicitamente personaggi queer nelle proprie storie, e anzi si è distinta a più riprese per aver cassato o ammorbidito qualsiasi proposta in tal senso arrivasse dai propri sceneggiatori. Anche Lightyear non ha fatto eccezione, essendo stato preceduto da polemiche per la censura – poi ritrattata – di un personaggio omosessuale. È proprio con questo film però che le complesse dinamiche aziendali, tra tendenze conservatrici e spinte woke, sono esplose quando una lettera dei dipendenti Pixar contro il taglio del bacio fra due donne ha costretto a una presa di posizione pubblica. La polemica contro la Disney in riferimento alla questione del “Don’t Say Gay” (ve ne abbiamo parlato qui) ha ovviamente condizionato ulteriormente l’operato della multinazionale.
LIGHTYEAR E I CONSERVATORI ISLAMICI: IL FILM ‘PROIBITO’ IN MEDIORIENTE
Con questa scelta politicamente corretta Lightyear si fa carico esplicitamente delle tematiche di inclusione sociale, ma la conseguenza è l’inevitabile scontro con il conservatorismo confessionale di alcuni mercati. L’idea iniziale era quella di approdare in territori come Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Kuwait previa una censura della sequenza del bacio, ma ben presto la Disney ha capito che assecondare una cultura omofoba avrebbe vanificato ogni sforzo di immagine in senso opposto e ha optato per escludere i suddetti paesi dalla distribuzione cinematografica.
DISNEY CONTRO PIXAR: LA SOTTILE LINEA ROSSA
Quello di “Don’ Say Gay” precedentemente evocato è solo un epifenomeno. La Pixar ha sempre dimostrato una certe tendenza contro il reazionarismo della casa madre. Da Onward alla presunta relazione omosessuale fra i due protagonisti maschili del recente Luca, Pixar non ha mai rinunciato a farsi sentire. Una provocazione culturale, certo, ma anche un modo per dimostrare la propria tendenza rispetto ai ‘valori tradizionali’ veicolati dalla Revival Era disneyana, divisa in due linee di produzione: live action (Maleficent, Cruella, Il re leone) e nuove produzioni (Raya e l’ultimo drago, Encanto).
Anche lì, l’operazione ideologica è sottile. Anche lì vi sono delle origin story dalla indubbia validità pedagogica che ha portato i film a essere consigliati ai maggiori di 13/14 anni. Ma è un’operazione diversa, più legata alla ridefinizione degli archetipi del bene del male (ve ne abbiamo parlato qui).
Eppure siamo di fronte a due tendenze che mirano a ri-disegnare il cosmo valoriale: Disney quello etico, Pixar quello socio-culturale. Entrambe, però, mirano destrutturare taboo cronicizzati e incancreniti che richiedono svecchiamento. Ma questa era già un’idea del buon vecchio Walt la cui tradizione è stata mantenuta: raccontare storie senza tempo ma legandole, intelligentemente, a un presente in continuo mutamento.
I TEMI ANTROPOLOGICI: “VERSO L’INFINITO E OLTRE”
Lightyear è il realizzarsi di un’aspirazione dalla connotazione antropologica. La conquista dello spazio, i viaggi interstellari alla velocità della luce, la possibilità di liberarsi dalla gravità. Temi a noi noti, soprattutto dopo l’Intestellar di Nolan, dove si realizza il potenziale umano come colonizzazione non di mondi, ma di galassie.
Il sogno dell’uomo di andare oltre l’uomo. La volontà di un superamento, accompagnata a una consapevolezza tragica: il limite. “Verso l’infinito e oltre”. Il motto di Lightyear lo conosciamo tutti. È il motto di un atavico potere americano che si spinge oltre i confini terrestri. Un’impresa che vuole rimediare alla grande carenza e al grande limite umano. Per questo, Lightyear oltre a essere un’opera tecnicamente raffinata è anche un messaggio contro l’antropocentrismo e il bisogno di superamento.
LIGHTYEAR E LE ASPIRAZIONI DA INTERSTELLAR
Sempre sullo sfondo di una riflessione etico-antropologica, Lightyear racconta anche di un’umanità che condivide la condizione del limite e, per superarla, fa leva su condivisione e gioco di squadra.
Lightyear punta, dunque, sul grande valore dell’amicizia come cooperazione (tra l’altro tema portante anche in Toy Story). Su questo MacLane costruisce l’evoluzione di un personaggio (Buzz) la cui eccessiva opinione di sé verrà mano mano ridimensionata, imparando il valore della condivisione e del supporto reciproco.
Buzz non è un eroe, ma diviene eroe. L’eroe di un’umanità, la cui essenza oscilla tra narcisismo e accettazione. Lightyear incarna tutto questo, lo fa bene nonostante rimanga un prodotto con uno specifico target che è il piccolo pubblico e uno script non eccellente.
A STARMAN WAITING IN THE SKY. MITOLOGIA DI BUZZ LIGHTYEAR
L’abbiamo sentito tutti. Le note di Starman di David Bowie, la propulsione e il viaggio interstellare hanno esercitato il loro impatto sugli spettatori che hanno visto il trailer di Lightyear. E, nostalgici o meno, non possiamo non esserne attratti. Entrando in sala o (probabilmente fra Luglio e Agosto) guardandolo su Disney+ non ci si aspetti il film dell’infanzia.
Lightyear è qualcosa di nuovo. Riscrive un personaggio, ne recupera l’ontologia originale e lo umanizza rendendolo un astronauta interstellare, un eroe tragico in pieno conflitto. Il lavoro di MacLane, in sintesi, si allontana dall’animazione, curvando verso lo science fiction e proponendo un prodotto ben confezionato che non delude, seppure non eccella.
Riscrivere un personaggio dell’immaginario collettivo è un’operazione ardua, una sfida complessa se non impossibile. MacLane ci prova e la Pixar riesce nel suo intento. Impianta una nuova narrazione sul personaggio. Ne recupera il valore umano e, nonostante sia letteralmente lontano anni luce, lo rende paradossalmente più vicino al suo pubblico di quanto non lo fosse il giocattolo di Andy.