La spiegazione del significato di Nope, il film sugli UFO di Jordan Peele uscito al cinema l’11 agosto 2022 (quando arriverà in streaming ancora non si sa), sta ovviamente in qualcosa di molto diverso dagli alieni o da una scimmia impazzita. Il regista e sceneggiatore premio Oscar, dapprima col folgorante debutto Scappa – Get Out! e poi con lo straordinario Noi (US), è diventato noto per la sua capacità di asservire i codici del cinema di genere alla narrazione simbolica di riflessioni più profonde.
Nope non si sottrae a questa idea di settima arte, eppure riassume alcuni caratteri dei lavori precedenti per segnare un’ulteriore evoluzione nell’opera del regista e sceneggiatore newyorkese. Qui infatti troviamo quell’immediatezza che caratterizzava il film di debutto unita alla grande scala che definiva la sua seconda pellicola. Tali elementi – una certa epicità e una scrittura apparentemente molto diretta – sono tipici della formula del blockbuster, e con il suo ritorno dietro la macchina da presa Peele sembra voler proprio confezionare qualcosa di vicino a una sua, personale, idea di cinema quasi per tutti. Senza però rinunciare all’autorialità, benché nascosta tra le righe.
NOPE: IL BLOCKBUSTER HORROR SECONDO JORDAN PEELE
Per sua stessa ammissione, è proprio alla spettacolarità che ha voluto mirare l’autore sin da quando ha ideato il soggetto iniziale. «Ho sentito che c’era un vuoto che volevo colmare, un film che avrei voluto vedere e che non esisteva: un grande film sugli UFO di genere horror» ha dichiarato a Entertainment Tonight. E ancora, a Fandango, ha detto: «Quando ho scritto Nope eravamo in piena pandemia, preoccupati per il futuro della sala cinematografica. La prima cosa che sapevo è che avrei voluto creare qualcosa di spettacolare, che le persone volessero vedere su un grande schermo».
La Universal spende tanto ma non troppo: come funziona l’industria ai tempi del Covid
Con il box office dell’era Covid – in media ridotto del 40% rispetto al passato, seppur con qualche fortunata eccezione – è raro che gli studios investano in grossi progetti scollegati dai franchise ‘blindati’. Il nome di Peele però è abbastanza importante da garantirgli una certa autonomia e così per Nope la Universal ha stanziato 68 milioni di Dollari (ai quali vanno aggiunti i costi di promozione, tra i 40 e i 60 milioni). Budget di base che è più del triplo di quello di Noi (US), per capirci, ma meno della metà del costo medio di un blockbuster.
Un investimento importante ma cauto, che però a un mese dal debutto sul mercato domestico (cioè statunitense) ha performato meglio di tanti altri competitor ma non ha ancora garantito un ritorno sull’investimento. Alla fine del ciclo distributivo, sottraendo le quote degli esercenti e sommando le vendite VOD, gli incassi home video e la cessione dei diritti a piattaforme streaming e network, sarà un miracolo se Nope segnerà un pur modesto attivo. Comunque insufficiente per gli standard dell’industry.
LA TRAMA SPIEGATA DI NOPE: UFO, SCIMPANZÈ E SHOW BUSINESS
Al centro della storia di Nope ci sono una famiglia di addestratori di cavalli specializzata in produzioni televisive e cinematografiche, i fratelli Otis (Daniel Kaluuya) ed Emerald (Keke Palmer), e un ex attore bambino (Steven Yeun). Nel passato remoto come in quello recente, i personaggi hanno dovuto fare i conti con il lutto, ma nel loro caso il contatto con la morte è arrivato nella forma di eventi imponderabili – come uno scimpanzé impazzito o un nichelino piovuto dal cielo.
All’orizzonte però si stagliano nuvole preoccupanti, letteralmente e metaforicamente – dato che anche in inglese si usa l’immagine figurata dello storm warning per indicare dei problemi in vista. Ma un «miracolo cattivo» è pur sempre un miracolo, e così i protagonisti decidono contro ogni buon senso che quell’apocalisse nel deserto va monetizzata.
Una storia mai vista? Non del tutto, ma poco importa
Diciamolo: con buona pace dell’ambizione di Peele di fare qualcosa «che non c’era», di film sull’incontro con visitatori da altri mondi è interpunta l’intera storia del cinema. Che si tratti di trashate d’antan come il glorioso Plan 9 From Outer Space (1957), di riletture politiche come il potente District 9 (2009) di Neil Blomkamp, di divagazioni horror come Bagliori nel Buio (1993) o Dark Skies – Oscure Presenze (2013) di casa Blumhouse o di capolavori d’autore come lo spielberghiano Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, un certo senso di déja vu è garantito. Anche senza considerare i molti parallelismi che fanno sovrapporre Nope ad altri due lungometraggi di Steven Spielberg: Lo Squalo (1975) e Jurassic Park (1993).
L’originalità però non è tutto, quel che conta è come si rimescolano gli ingredienti, e in questo il cineasta americano è maestro. A rendere particolarmente potenti le opere di Jordan Peele infatti non è tanto quel che accade in superficie, ma quel che raccontano in filigrana. E, come ha avuto modo di dire il regista nell’intervista a Uproxx: «C’è anche un modo di vedere il film per quei tipi che dicono: ho lavorato tutta la settimana, voglio spegnere il cervello e guardare qualcosa di folle». Quindi sì, il film può funzionare bene anche per lo spettatore passivo, ma non è quella la fruizione principale per cui è stato girato. Nope infatti, dietro i ‘lustrini’ dei VFX e del cardiopalma, è una grande allegoria sulla pandemia di Covid-19.
LA SPIEGAZIONE DEL SIGNIFICATO NASCOSTO DI NOPE, UN’ALLEGORIA SULLA PANDEMIA E IL CORONAVIRUS
L’idea di accostare la pandemia di SARS-CoV-2 a un film su un’invasione di UFO potrebbe sembrare, di primo acchito, forzata e pretestuosa. D’altronde accade spesso che la critica cervellotica voglia proiettare in quel che vede significati che non ci sono. Eppure, per peregrina che possa sembrare questa lettura, è supportata dalle parole dello stesso Jordan Peele.
L’autore di Nope infatti ha dichiarato di aver iniziato a scrivere il film nel pieno del primo lockdown statunitense, nel 2020, e di come il film racconti proprio, per metafora, quello che ci stava succedendo intorno. Ha detto a GQ: «Eravamo intrappolati al chiuso, e così è stato naturale proiettare quelle emozioni sull’esatto opposto, fare qualcosa che parlasse anche del cielo. Avremmo tutti voluto andare all’aperto e tutti insieme; avevamo questa paura inedita derivante dal trauma della pandemia, di cosa potesse significare uscire allo scoperto. Potevamo farlo? È proprio da questi sentimenti che sono partito».
Nel pieno della pandemia, il racconto della realtà era il nostro unico contatto con essa
Alla luce di queste parole, i simbolismi iniziano a diventare lapalissiani. Il Coronavirus, proprio come l’UFO di Nope, è una minaccia del tutto inaspettata ed ‘esterna’, che ci rende prigionieri nella nostra casa (nel film, la Terra) e le cui proporzioni sfuggono apparentemente a ogni tentativo di controllo. Ma Nope non tratta solo in modo generico il trauma dell’epidemia, e anzi approfondisce il modo in cui l’industria dello showbiz ha reagito a quella cesura netta nella storia del nostro tempo.
È esperienza comune: ci siamo ritrovati protagonisti inconsapevoli della Storia. All’improvviso i cinema chiudevano (molti per sempre), l’industria della Settima Arte vedeva gli avvoltoi volteggiarle sulla testa e i narratori (cinematografici e non solo) erano spiazzati davanti a un mondo che non sapevano più riconoscere e quindi raccontare.
Intanto, la rappresentazione però non si fermava: su ogni canale televisivo, come sul web, venivamo sommersi da un proliferare esponenziale e inevitabile di testimonianze su quel che succedeva. Più o meno artefatto, più o meno sincero, quel che vedevano su uno schermo è stato, in un dato momento, l’unico nostro contatto con il dramma in atto. La rappresentazione era tutto quel che ci rimaneva – se eravamo abbastanza fortunati da non avere dei cari in terapia intensiva.
DI COSA PARLA NOPE? LA RAPPRESENTAZIONE E LA MONETIZZAZIONE DEL DRAMMA
Sempre nell’intervista di cui sopra, Jordan Peele dice che «Quello di cui stavamo facendo esperienza in quelle fasi della pandemia era un sovraccarico di rappresentazione; il punto più estremo nella nostra dipendenza dalla rappresentazione». E ancora: «Nope è un film sulla rappresentazione; più precisamente sulla nostra dipendenza da essa. (…) sulla nostra incapacità di distaccare lo sguardo dal dramma o dal pericolo». Non solo, Nope è anche un film su Hollywood che reagisce alla pandemia, perché la sceneggiatura fa anche continuamente i conti con un’industria dello spettacolo che cerca nuovi modelli di business che sfruttino l’imponderabile. Che si tratti dell’UFO o dello scimpanzé Gordy.
Il fatto che i fratelli Haywood, nel film, dichiarino di essere discendenti del fantino raffigurato nella celebre cronofotografia del 1884 Animal Locomotion – e quindi del primo nero mai apparso nella storia del cinema – non fa che sottolineare il suddetto simbolismo, arricchendolo di una sfumatura legata alla sottorappresentazione degli afroamericani nel genere western.
Che significa la vicenda dello scimpanzé in Nope? La spiegazione del significato
In tal senso, l’inizio di Nope è un compendio del significato dell’intero film. Peele, proprio come faceva Hitchcock, sfrutta una vicenda apparentemente secondaria come quella di Gordy – primate, ‘attore’ e assassino – per anticipare tutte le tematiche del film. Un vero e proprio presagio che da una parte crea tensione e dall’altra chiarisce che la pellicola tratta della spettacolarizzazione e mercificazione della sventura e dall’altra la vana illusione del controllo. Il fatto che tale sottotrama riguardi una scimmia, e cioè l’animale da cui discendiamo nonché quanto di più lontano possa esserci da una minaccia aliena, vuole proprio sottolineare la natura atavica di certi comportamenti.
IN NOPE IL SIGNIFICATO FINALE È RIASSUNTO ANCHE DALLA FOTOGRAFIA DEL FILM
Nope è molte cose. È un film sugli UFO, certo, ma è anche un thriller, un monster movie, un ‘home’ invasion, un western e una commedia. Nope in un certo senso è anche un blockbuster, nonostante né il budget né i risultati al botteghino siano adeguati al genere. Soprattutto, però, Nope è un grande racconto simbolico che, per allegoria, ci parla della pandemia di Coronavirus.
Al suo terzo film, Jordan Peele riesce nella rara operazione di inanellare tre successi artistici (nonostante le vette di Noi e Get Out! rimangano ineguagliate) e soprattutto parla della risposta del cinema alla pandemia proponendo anche una strada per ricordarci l’importanza dell’esperienza del grande schermo. Certo, stavolta niente colpi di scena capaci di lasciare lo spettatore a bocca aperta. Fare cinema in pandemia significa anche giocare sul sicuro, e così Peele evita di spaventare il pubblico più generalista e ci risparmia il momento in cui in passato scopriva le carte e rivelava il suo gioco di prestigio. Peccato.
Con Nope lo sguardo del regista si fa più ampio che mai, con panorami mastodontici che inghiottono nella vastità le figure umane. Con una semplice scelta di composizione del frame e di scelta delle lenti, Peele e il suo direttore della fotografia Hoyte Van Hoytema (Dunkirk, Tenet) in un sol colpo ci restituiscono la scala collettiva della minaccia aliena, l’impotenza degli individui e le peculiarità della sala di proiezione. Mentre, come le ‘formiche’ de Il Muro di Sartre, quegli insignificanti individui si affannano operosi. In cerca di un’opportunità.