Everything Everywhere All At Once è il secondo film dei Daniels, ovvero Daniel Kwan e Daniel Scheinert, che dopo aver conquistato il successo della critica con il bizzarro e folgorante Swiss Army Man (premio alla miglior regia al Sundance 2016) ritornano con un lavoro altrettanto peculiare.
Prodotto dai fratelli Russo (Avengers: Endgame) e distribuito negli USA da A24, è diventato presto un vero caso cinematografico, con un botteghino mondiale da circa 100 milioni di dollari – che ne ha fatto il più grade successo del distributore d’oltreoceano di cult come Midsommar o Storia di un Fantasma. A portarlo nei cinema italiani ci ha pensato, meritoriamente, I Wonder Pictures.
LA TRAMA DI EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE: IL FOLLE E VISIONARIO RITORNO DEI DANIELS
In Everything Everywhere All At Once i Daniels hanno inserito una moltitudine di elementi che generano altrettanti universi narrativi, onirici, fisici ed esistenziali che insieme creano i tre atti di cui è composto il film. La storia racconta la vita di Evelyn Wang (Michelle Yeoh), proprietaria insieme al marito Waymond (Ke Huy Quan) di una lavanderia a gettoni. Insoddisfatta cronica, è alle prese con un’infinità di problemi, dalla ribellione post adolescenziale della figlia Joy (Stephanie Hsu) all’accudimento di suo padre in preda alla demenza senile.
Non aiuta la causa il marito Waymond, che è un uomo di indole buona ma poco avvezzo alla gestione di affari e famiglia. Come se non ci fossero abbastanza crucci, il fisco impone ad Evelyn un duro controllo sui conti della lavanderia. Ed è proprio il fisco, con il suo imponente palazzo emblema della burocrazia, a diventare il primo espediente narrativo di Everything Everywhere All At Once. Il labirinto di ostili pratiche dell’insopportabile Deirdre Beaubeirdre, un’impiegata particolarmente puntigliosa interpretata da Jamie Lee Curtis, si trasformerà presto in un caleidoscopio di universi paralleli.
EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE: IL SENSO DEL CAOTICO MULTIVERSO È NELL’INGESTIBILITÀ DI UNA VITA DIFFICILE
È la vita di ogni giorno che i Daniels raccontano in Everything Everywhere All At Once, quella delle bollette e del cliente poco simpatico, delle difficoltà familiari, dell’amore e del rimpianto. Così Evelyn, come una moderna Alice nel Paese delle Meraviglie, scopre la porta che la conduce in un mondo alternativo, proprio in quell’ufficio asettico dove la sua vita sta per andare a rotoli.
Evelyn si ritroverà così a confrontarsi con i multipli di tutte le persone che la circondano, mentre la guida per entrare e spostarsi da un universo all’altro sarà inaspettatamente proprio suo marito (il cui interprete non è altri che l’indimenticato Data de I Goonies, nonché lo Short Round di Indiana Jones e il Tempio Maledetto). L’uomo e la sua conoscenza degli espedienti per entrare ed uscire dal multiverso saranno fondamentali per il percorso di Evelyn, che a sorpresa dovrà affrontare un oscuro nemico.
Tutte queste caleidoscopiche disavventure sono però evidentemente un simbolo. Le infinite possibilità, tra le quali è quasi impossibile destreggiarsi, sono in realtà il simbolo delle imprevedibili difficoltà in cui rischiano di arenarsi le nostre aspirazioni e il nostro slancio vitale. Il fallimento è dietro l’angolo, tristemente, sempre.
EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE, LA SPIEGAZIONE DEL SIGNIFICATO E DEI SIMBOLI DEL FILM
Nel loro precedente Swiss Army Man, dietro le gag legate al corpo in decomposizione di Daniel Radcliffe i registi e sceneggiatori nascondevano profondissime riflessioni sui disturbi mentali e il senso della vita. In Everything Everywhere All At Once i Daniels estremizzano questa loro sensibilità e spingono l’acceleratore nell’apparente direzione di un action visionario. Se l’intrattenimento viene conseguito con grande successo, nelle pieghe della sceneggiatura si nasconde molto di più.
Senza retorica, commiserazione o intellettualismo, i cineasti riescono infatti a nascondere dietro un crescendo di fuochi d’artificio un’allegoria straordinariamente intima sul fallimento. Che si tratti della protagonista o dell’antagonista multidimensionale con cui questa deve confrontarsi, il punto di incontro che unisce gli opposti è quello delle sabbie mobili in cui la vita rischia di imprigionarci. È proprio nella fragilità umana che la spumeggiante extravaganza di Everything Everywhere All At Once radica la sua dimensione più umana ed emotiva. Se lo spettatore distratto vedrà quasi solo mosse di kung fu e costumi eccentrici, quello più smaliziato si commuoverà con la genuina verità che soggiace a quel delirio simbolico.
EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE, UNA METAFORA LA CUI SPIEGAZIONE STA NELL’IDEA STESSA DEL POTER ESSERE QUALCUNO DI DIVERSO
I Daniels hanno inserito una moltitudine di citazioni che variano dalla letteratura del fantastico alla cultura pop cinematografica, alternando momenti comici e drammatici e legando il tutto con un montaggio frenetico e immersivo. Dalle arti marziali – immancabili quando ad essere protagonista è Michelle Yeoh – alla parodia dei grandi chef (che siano umani o roditori poco importa), Evelyn vive molteplici sliding doors e affronta più volte il suo presente, interrogandosi sul cambiamento del sé in base alle scelte del passato.
La protagonista ha la possibilità di vivere tante vite quante ne vorrebbe e non solo di immaginare, ma di essere sé stessa. Alla fine il ragionamento alla base della struttura narrativa del film è proprio questo: se potessimo vivere contemporaneamente mille vite, quale sarebbe la migliore? A questi interrogativi non può esserci una risposta univoca, ma per evitare che il caos si insinui nei pensieri di tutti i giorni bisogna compiere una scelta.
Così Everything Everywhere All At Once diventa un film esistenzialista e i Daniels, con la loro regia fuori dalle righe, firmano un lavoro interessante sotto molti punti di vista. Ad una struttura classica, con un immancabile villain, alternano una trama innovativa e immersiva, dove i cambi di abiti, ambientazioni e personalità sono frenetici, richiamando ed esasperando quelli che sono i ritmi della quotidianità.