Con Triangle of Sadness possiamo dire con certezza che il pluripremiato regista e sceneggiatore Ruben Östlund abbia trovato una formula vincente, semplice e immediata, per certificarsi come ‘autore da festival’: prendere in giro ambienti e persone facili da prendere in giro.
Era il caso di The Square, satira piena di idee visive e autoriali sul quel mondo dell’arte contemporanea che si prende tremendamente sul serio ma vive grazie a donazioni di ricchi spesso inesperti e narcisisti. Una preda facilissima, che Östlund azzannava e tramortiva con una miriade di trovate (qui la spiegazione di The Square).
È anche il caso di Triangle of Sadness, in cui il regista svedese prende di mira la moda, gli influencer e i ricchi del mondo tramite una satira in tre atti nella quale convivono i magnati del passato e le nuove celebrità. Il problema è che stavolta la tesi sulla quale è costruito il film è profonda quanto un dibattito fra due liceali dopo la prima lezione di filosofia: «i soldi e la bellezza regolano i rapporti di potere».
TRIANGLE OF SADNESS: IL FILM PALMA D’ORO A CANNES SU UNA CROCIERA VERSO IL DISASTRO
Su una nave da crociera super lussuosa convivono i facoltosissimi passeggeri, che non badano a spese, e l’equipaggio, che fa di tutto per scucire quante più mance possibili. Questi rapporti perdurano fino a che la nave non naufraga e gli equilibri di potere si invertono: chi sa cacciare e pescare diventa il re, chi è ricco e sa solo ‘fare soldi’ un suddito. È Travolti da un Insolito Destino della Wertmüller ma senza quella profondità che fa del film con Giannini e Melato una pietra miliare. Nel film di Östlund è tutto ovvio, chiaro al primo sguardo, reiterato per due ore e mezzo per un’opera che vuole procedere per accumulazione di gag e non tramite un ragionamento con capo e coda.
Il film di Östlund, premiato con la Palma d’Oro a Cannes come lo era stato anche The Square, è quindi incredibilmente superficiale, pieno di ovvietà e di facili ritorsioni contro i potenti. La nave naufraga mentre i passeggeri vomitano a ripetizione per le onde alte e affogano nei loro escrementi. Il capitano, interpretato magnificamente da Woody Harrelson, è un alcolista che lascia affondare la barca mentre farfuglia di socialismo, capitale, mezzi di produzione. Come se non riuscisse più a mantenere quella maschera borghese che deve avere davanti agli ospiti e dovesse rivelarsi per chi realmente è: un «raro americano socialista» – come se fossimo rimasti ancora ai tempi del maccartismo.
LA SPIEGAZIONE DI TRIANGLE OF SADNESS STA IN UNA SATIRA SUI RICCHI PRETENZIOSA E BANALE
Durante l’ultimo atto di Triangle of Sadness, poi, quando in seguito al naufragio i soldi perdono ogni valore, Östlund insiste per tre quarti d’ora su un’altra ovvietà: le persone belle possono conquistare qualcosa grazie al proprio aspetto. Così il modello protagonista del film – un buon Harris Dickinson – comincia a godere di privilegi perché diventa l’amante dell’unica donna che sa cacciare e pescare e fornisce nutrimento al gruppo. È così che riesce a ottenere utilità in cambio del piacere. Tale dinamica va avanti per decine di minuti e dovrebbe avere un impatto su un finale, che vorrebbe essere aperto mentre a conti fatti sembra solo inconcludente.
C’è un percorso chiaro nella carriera di Östlund. Forza Maggiore era una magnifica metafora esistenziale dell’uomo comune che perde il ruolo di patriarca all’interno del nucleo famigliare, raccontata attraverso una vicenda la cui ricchezza di spunti e legami causali poteva rimandare a Dostoevskij. The Square raggiungeva il suo culmine con una delle scene più indimenticabili dell’ultimo decennio di cinema: quella performance in cui un performer impersonava una scimmia impazzita e terrorizzava gli altolocati ospiti della cena del museo.
TRIANGLE OF SADNESS E IL SIGNIFICATO DI UN CINEMA D’AUTORE CHE GIUDICA SENZA DARE PROFONDITÀ
Triangle of Sadness invece, seppur a tratti esilarante, è purtroppo molto meno complesso, stratificato e allegorico dei due predecessori. È un insieme di gag che funzionano benissimo grazie a meccanismi comici ben congegnati, ma non hanno alcun peso all’interno del film e sono intellettualmente davvero poco interessanti. Che originalità c’è nel deridere gli influencer perché si fanno foto per lavoro? Quanta superficialità c’è nel liquidare un fenomeno di massa che sta cambiando il modo di comunicare delle aziende e delle istituzioni? E poi, quanto è infantile far naufragare dei ricchi in mezzo al vomito e rappresentarli in balia dei fenomeni naturali, unica forza che non possono controllare?
Alla luce di tutto questo, è legittimo il dubbio che ormai Östlund si sia arenato su un modello di scrittura che si prende gioco di bersagli facili, troppo facili. Ma d’altronde si sa che le giurie dei grandi festival ed eventi cinematografici, per definizione consessi di personaggi ricchi e potenti, sembrano sublimare un proprio latente senso di colpa premiando opere che criticano il loro mondo. Che Östlund, al suo debutto in un film in lingua inglese, se ne sia accorto e abbia grossolanamente provato a puntare Oltreoceano?