M3GAN, prototipo di una bambola robotica multitasking, è la nuova protagonista dell’ultima fatica di Blumhouse, la casa produttrice del Re Mida dei film horror (vi abbiamo già parlato della storia di come Jason Blum ha conquistato Hollywood). Il film, basato su un soggetto dal veterano del genere James Wan (Saw, Insidious, The Conjuring) e diretto da Gerard Johnstone, si colloca nel filone drammaturgico che ha per protagonisti oggetti inanimati, che imitando le fattezze umane, finiscono per diventarne una macabra allegoria. Tipico di questo sotto-genere è il riferimento alle bambole “assassine” o malvagie di film come il capostipite La Bambola Assassina, Dead Silence (dello stesso James Wang), e ultimamente la saga di Annabelle.
LA TRAMA DI M3GAN. UNA RILETTURA DE LA BAMBOLA ASSASSINA IN CHIAVE HIGH TECH?
La trama di M3GAN utilizza l’espediente del trauma per approfondire quelli che sono i rapporti umani nella contemporaneità, con la mediazione di un oggetto ad alta tecnologia, capace di interiorizzare i sentimenti e le necessità delle persone attraverso l’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Acronimo di Modello 3 Generativo Android, M3GAN, è un prototipo in fase di sviluppo, creato dalla brillante progettista Gemma (Allison Williams) e dal suo team di sviluppatori di giocattoli ad alta tecnologia.
Quando Gemma diventa improvvisamente tutrice della nipotina Cady (Violet McGrow), a seguito della morte dei genitori, decide di sperimentare, insieme alla bambina le capacità di intelligenza emotiva della bambola androide. M3GAN diventa così guardia del corpo, confidente, psicoterapeuta ma soprattutto amica della piccola Cady, sottraendosi a tutti i processi umani e graduali che portano al superamento di un trauma. Allo stesso tempo, l’impegnata Gemma si distacca completamente dal ruolo di tutrice, lasciando alla macchina i principali compiti di accudimento e ascolto. M3GAN diventa quindi vittima e carnefice dei comportamenti della sua creatrice, interiorizzandone il lato positivo e quello negativo, incapace di operare quella riflessione necessaria e del tutto umana per distinguere bene e male.
M3GAN E LA VALLE PERTURBANTE: NEI FILM HORROR MAI FIDARSI DEI ROBOT
Il film di Gerard Johnstone funziona ma rimane ancorato ad una prospettiva poco innovativa in termini registici e non abbastanza ambiziosa per quanto riguarda la scrittura. La storia ricorda infatti nelle premesse e nel loro sviluppo infiniti prodotti precedenti, che siano cinematografici o televisivi – si pensi anche solo alla puntata Rachel, Jack and Ashley Too della serie TV Black Mirror.
Pure in questo caso la narrazione è imbastita sull’uncanny valley, cioè la ‘zona perturbante’ che in robotica indica l’inquietante inefficacia dei robot di riprodurre caratteristiche tipiche dell’esperienza umana, e sfocia nei luoghi comuni più prevedibili del cinema di paura. A colorire l’insieme troviamo però qualche spunto di contorno: il senso di inadeguatezza della figura genitoriale o paragenitoriale, l’utilizzo della tecnologia come surrogato dell’interazione umana, la difficoltà di stabilire delle relazioni amicali e il bisogno di ascolto e attenzione che ne consegue.
M3GAN, TRA SPUNTI ACCENNATI E LA RICERCA DI NUOVE ATMOSFERE PER UN VECCHIO TOPOS
L’autore della storia di M3GAN James Wan e la sceneggiatrice Akela Cooper però, forse consapevoli delle aspettative del proprio target di riferimento, non lascia spazio a un approfondimento tridimensionale dei personaggi e rimangono sempre ancorati al momento in cui si svolge l’azione. Avevano fatto decisamente meglio con Malignant.
La natura piuttosto piatta della storia si riverbera anche nelle ambientazioni: la stessa scenografia ripiega su un’asetticità livida, reminiscente dell’immaginario tecnologico, nell’evidente tentativo di parlare a nuove generazioni distanziandosi dal look vintage della saga di Chucky e dalle atmosfere esoteriche di quella di Annabelle. Tra i toni grigio brillante dell’acciaio e dell’oro rosa che richiama i fili di rame, tutto confluisce nella gelida atmosfera della casa di Gemma, priva di quel calore umano di cui la piccola protagonista Cady avrebbe bisogno.
In M3GAN non mancano elementi interessanti, certo, ma rimangono coloriture che non vengono mai veramente trasformate in atti narrativi o dialoghi profondi: tutto è affidato all’interpretazione e alla sensibilità del pubblico. Anche l’immaginario della fabbrica di giocattoli high tech, con i suoi dipendenti e il team di sviluppo, purtroppo pecca della stessa genericità e quindi risulta carente di appeal.
Non manca nemmeno qualche colpo di scena, in particolare nel momento dello scontro tra M3GAN e un irritante bulletto, ma il deviato istinto di protezione dell’intelligenza artificiale risulta in qualche occasione persino più ‘umano’ di tanti comportamenti reali, mentre la degenerazione dell’automa e la ribellione delle macchine sono affrontati solo superficialmente.
PER CAPIRE M3GAN BISOGNA GUARDARE ALLA STRATEGIA BLUMHOUSE: PUNTARE SU GIOVANI E DONNE
Il lato più puramente horror del film però, che ci si aspetta sia la principale leva di marketing di un prodotto che non ha certo grandi ambizioni artistiche, mostra comunque qualche lacuna. Laddove il pubblico si aspetterebbe una kill count più in linea con gli standard, trova più che altro una riflessione svogliata verso l’inquietante mondo che la tecnologia sta contribuendo a creare. Sospeso tra un annacquamento dell’horror classico, sfumature campy e un moderato tentativo di innovazione, M3GAN pur con meno ironia ricorda più che altro produzioni con cui Blumhouse ha provato con grande successo ad avvicinarsi a un target più giovanile e non prevalentemente maschile – si pensi ad Auguri per la Tua Morte, Freaky o Obbligo o Verità. Non manca nemmeno una parentesi di danza che sembra inserita appositamente per diventare virale su TikTok (qui la bambola è interpretata dalla giovane attrice Amie Donald, che troviamo dietro la maschera in tutte le scene più dinamiche). Probabilmente il botteghino darà ancora una volta ragione a Blum, e i difetti del film si riveleranno – almeno economicamente – pregi.
M3GAN in conclusione non è particolarmente incisivo ma merita comunque una chance, a patto di moderare considerevolmente le aspettative. Non aspettatevi un La Bambola Assassina adatto ai nostri tempi né un trattato di sociologia, ma un thriller con sfumature horror potabile per tutti i palati, che abbozza un ritratto poco edificante delle relazioni umane e in cui a uscire con le ossa rotte è la società contemporanea.