“Dio è il numero uno e il football il numero due”. Un film che parte con questa premessa e che si occupa di football americano induce alte aspettative, con il pubblico che pregusta fuochi d’artificio adrenalinici, tensione alle stelle, passioni violente. Invece passano due ore e la pellicola di Peter Landesman, regista e sceneggiatore, finisce senza aver provocato un solo brivido, se non per gli scontri di gioco degli atleti in campo che si danno testate pazzesche per tutto il film, che solo a vederli viene il mal di testa.
Zona d’ombra – Una scomoda verità ci porta nel 2002. Il dottor Bennet Omalu (Will Smith), un neuropatologo nigeriano emigrato a Pittsburgh, deve eseguire l’autopsia su Mike Webster, un’icona del football, mito per gli adulti e modello di sport e di vita per i ragazzi. Webster è morto per via di alcune ferite autolesionistiche nella propria auto, in cui si era ormai ridotto a vivere in condizioni misere. Mentre tutti credono che l’uomo fosse improvvisamente impazzito, Omalu decide di approfondire gli esami clinici e riscontra una serissima forma degenerativa causata dai ripetuti e continui colpi alla testa subiti da Webster durante la carriera sportiva. La scoperta del medico è tutt’altro che trascurabile: si tratta infatti della CTE (encefalopatia traumatica cronica), una grave patologia che provoca tra l’altro depressione, perdita di memoria, allucinazioni, confusione mentale e che spesso induce al suicidio. Mike Webster purtroppo non sarà l’unico a togliersi la vita e la stessa sorte toccherà anche ad altri ex giocatori, incluso un esponente della NFL (National Football League). Sarà da questo momento che il conflitto tra il dottor Omalu e una delle maggiori leghe professionistiche del football americano si placherà e tutti inizieranno a riconoscerne ed apprezzare le scoperte scientifiche; ovviamente non prima che il protagonista abbia ricevuto porte in faccia e intimidazioni tanto gravi da metterne a rischio anche la famiglia e costringerlo a trasferirsi in California.
Il lato positivo del film risiede proprio nell’aver portato a conoscenza del grande pubblico una serie di fatti abbastanza sconosciuti nonostante siano relativamente recenti, basti pensare che, ci fa saper il film, ancora oggi ci sono atleti che intentano cause giudiziarie dopo aver scoperto di avere la CTE.
Il lato negativo è, purtroppo, tutto il resto. Non è certo colpa di Will Smith, che fa soltanto ciò che la regia gli chiede e connota il protagonista di una spiccata umanità che lo fa addirittura parlare con i cadaveri prima di effettuarne l’autopsia (“loro sono i miei pazienti”), lo rende la perfetta incarnazione del sogno americano e gli fa implorare Dio a proposito e spesso a sproposito. La frase che Landesman fa dire al suo protagonista “l’America per me era la manifestazione di quello che Dio voleva fossimo tutti” è la summa di un film che vuole volare alto senza però mai riuscirci davvero. Il genere del film-denuncia è tipicamente americano ma in questo caso la regia è debole e così anche lo script che ha sì messo in campo gli elementi necessari per destare interesse ma che se li gioca con troppa spavalderia, superficialità, supponenza.
Sembra quasi che Landesman non voglia mettersi dalla parte dei “cattivi”, dove i cattivi sono quelli che mettono in discussione il football americano; ma siccome il suo film fa proprio questo, allora tira in ballo continuamente Dio e la grandezza dell’America quasi a compensare l’invadenza nell’istituzione sportiva. Alla fine lo spettatore si tiene il racconto e si accontenta. Non è poco ma la vicenda si prestava a un mordente diverso e cinematograficamente più incisivo. A ricordarci invece la durezza dell’argomento l’ennesima gran testata di due ragazzi delle giovanili a conclusione della pellicola. Si esce dalla sala storditi, ma non sempre è un bene.
Will Smith si aggira nella Zona d’Ombra
La battaglia di un medico per denunciare il dramma degli infortuni nel football americano al centro di una pellicola di dubbia riuscita.