Nell’ultimo decennio c’è stata una tendenza ben chiara nel cinema d’autore internazionale, che ha avuto origine con almeno due film argentini: il primo è Jauja (2014) di Lisandro Alonso, il secondo è Zama (2017) di Lucrecia Martel. Entrambi i film – direttamente o in filigrana – raccontavano le dinamiche oscure e spietate della colonizzazione europea in Sudamerica e gli insostenibili massacri inflitti alle popolazioni indigene locali. Los Colonos, opera prima del cileno Felipe Gálvez, già selezionato in Un Certain Regard del 76° Festival di Cannes (premio Fipresci) e presentato fuori Concorso al 41° Torino Film Festival, alimenta questo filone di cinema anti-coloniale e lo fa immergendosi in un immaginario ancora meno convenzionale e tradizionale. Seguendo un’altra lezione, quella del Godland di Hlynur Palmason (che era passato anch’esso da Cannes e Torino proprio l’anno precedente e che proponeva l’idea atipica e bellissima di un far-west nordico), Gálvez imbastisce quello che a prima vista ha tutte le sembianze di un western sudamericano ambientato nell’ostica e desolata Terra del Fuoco.
Lo sterminio degli indiani Selk’nam raccontato da Los Colonos
È qui che nel 1901, uno spietato commerciante di lana, José Menéndez (Alfredo Castro), ordina ad un trio di mercenari di delineare le sue proprietà e stabilire una rotta commerciale sicura verso l’Atlantico, ripulendo l’arcipelago dalla comunità degli indigeni Selk’nam che ritiene una minaccia per i propri affari. A prendere parte a questa missione sono lo stoico tenente scozzese dell’esercito britannico MacLennan (Mark Stanley), lo sfacciato e imprevedibile cowboy/mercenario americano Bill (Benjamin Westfall) e il più giovane e taciturno Segundo (Camilo Arancibia), metà indigeno e metà spagnolo, che conosce bene la zona e la popolazione locale. Agli ordini di MacLennan, la piccola spedizione vaga per le lande della Terra del fuoco a caccia di indigeni, uccidendo, stuprando e seviziando un’intera comunità di Selk’nam. Sette anni dopo un emissario del governo cileno, Vicuna (Marcelo Alonso), visita l’isolato regno di Mendendez, tentando di raccogliere informazioni sulla famigerata furia scatenata da MacLennan negli anni precedenti e suggerendo che l’establishment adesso desidera fare pace con le popolazioni indigene. Ma la riconciliazione non rientra nella visione di Menéndez che rivendica a pieno titolo il suo lavoro di “purificazione”.
Los Colonos, un western che attraversa il subartico
Già candidato per rappresentare il Cile ai prossimi premi Oscar e diviso in quattro capitoli narrativi (Il re dell’oro bianco, Mezzosangue, La fine della terra e Il maiale rosso), Los Colonos rimanda stilisticamente agli immaginari del western, rendendoli però più minimali, oscuri, glaciali. La fotografia dell’italiano Simone D’Arcangelo (The Tale of King Crab) cattura i panorami brulli e freddi della Patagonia cilena in tutta la loro desolazione ed inospitalità, con uno sguardo che ricorda Sergio Leone ed utilizzando una luce naturale che per forza di cose è tutt’altro che solare e calda ma piuttosto fredda e cupissima. La colonna sonora di Harry Allouche, smaccatamente morriconiana, accentua ancora di più questa similitudine, restituendo una solennità tipica del genere. Ma il territorio subartico di Los Colonos non è solo scenario, ma ha un respiro, un’anima, è un personaggio in piena regola, capace di esprimere un realismo magico e un’estetica tanto elegante quanto inquietante. È il caso di una scena potentissima, quella della sparatoria in mezzo alla nebbia, con quadri che evocano L’Infanzia di Ivan (1962) di Tarkovsky e Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola.
La zona grigia in Los Colonos
Gálvez, che ha co-sceneggiato il film insieme ad Antonia Girardi (un’altra italiana), non si limita però ad un puro formalismo per filtrare la denuncia anticoloniale, ma è bravo anche ad evitare tutti i cliché narrativi del caso, focalizzandosi non tanto sui grotteschi colonizzatori europei ed americani (volutamente rappresentati dai personaggi di MacLennan e Bill) ma soprattutto sulla figura centrale del meticcio Segundo (letteralmente “secondo”) che si ritrova, suo malgrado ad accompagnare i due mercenari bianchi nella spedizione genocida ordinata da Menéndez. Qui la riflessione di Los Colonos avanza oltre la tradizionale dicotomia colonizzatori/colonizzati, indagando la zona grigia rappresentata dal meticcio che disprezza i suoi compagni di missione e le loro gesta brutali ma allo stesso tempo non è capace di opporsi ad essi (pur avendo occasioni per farlo) e finendo per scegliere la strada della “riduzione del danno”. Segundo diventa così un personaggio che si ferma a metà tra complicità e testimonianza, rendendo molto più intricato il filo che lega la politica coloniale con le popolazioni che quella politica la subirono (non è un caso che la storia dello sterminio dei Sek’nam è ancora oggi opportunamente omessa dal programma scolastico cileno).
Dopotutto, e lo capiamo nell’ultimo atto, a Gálvez (come anche al suo conterraneo Pablo Larrain) interessa quel territorio di mezzo in cui i confini diventano più labili, meno marcati, quasi invisibili. In una allegorica scena finale, prima dei titoli di coda che scorrono su immagini d’archivio del Cile degli inizi del XX secolo, è proprio la cinepresa dell’emissario governativo Vicuna che diventa mezzo sia di testimonianza documentarista dell’orrore subito dagli indigeni cileni che di collusione con i loro carnefici. Se nessuna immagine, sia essa di finzione o documentata, può restituire la realtà di quei delitti e la responsabilità di quelle colpe, allora anche il cinema, nella sua ambivalenza e ambiguità, nei suoi filtri e nelle sue simulazioni, finisce per essere uno strumento del potere, incapace di opporsi ad esso e funzionale alle sue finalità precostituite. Una zona grigia dove testimonianza, indifferenza e complicità si sovrappongono inesorabilmente.