Perfect Days è un po’ un film della rinascita per Wim Wenders. Questo perché l’autore tedesco gode della reputazione di chi ha confezionato capolavori assoluti della storia del cinema (si pensi a Il Cielo Sopra Berlino del 1987, per citarne uno), ma in realtà da più di un ventennio sforna pellicole di finzione nei migliori dei casi insipide e nei peggiori terribili. Discorso diverso per il genere del documentario, con cui invece ha continuato a cimentarsi con ispirazione ed eleganza.
Ebbene Perfect Days, che inizialmente doveva essere un documentario sui bagni pubblici di Tokyo e che giunge a sette anni di distanza dal suo ultimo film di fiction (Submergence, 2017), ha una freschezza e una poesia che ormai nessuno si sarebbe più aspettati dal cineasta di Düsseldorf. Una storia profonda sul senso di accettazione, intrisa della spiritualità e della filosofia asiatiche, che è stata premiata per la miglior interpretazione maschile a Cannes 76 e che poi si è guadagnata una candidatura tra i film in lingua straniera agli Oscar 2024. Non solo: un inaspettato successo al botteghino, che ha riportato il nome di Wenders sulla bocca dei nostalgici come di nuove generazioni di cinefili.
DI COSA PARLA PERFECT DAYS? QUANDO LA MONOTONIA DIVENTA SPIRITUALITÁ
Hirayama (Kōji Yakusho, The Third Murder) è un uomo che lavora come addetto alle pulizie nei bagni di Tokyo. La sua vita è ritmata da una lenta ma profonda routine che lo vede come osservatore meditativo in un mondo accelerato. Tra immagini del passato, incontri inattesi e la vita che scorre lentamente, Hirayama rimane in silenzio come un maestro imperturbabile ma comunque obbligato a vivere la sofferenza e la gioia dell’esistenza.
WIM WENDERS E IL RUOLO DELLA COLONNA SONORA IN PERFECT DAYS
Perfect Days è di un’essenzialità tanto straordinaria quanto stravolgente. Hirayama si sveglia al mattino, cura le sue piante, prende il suo caffè, ascolta audiocassette anni ’60-’70 nel suo mini van e passa la giornata a pulire i bagni pubblici. Per commentare la vita di Hirayama, Wenders sceglie una rosa di brani eccellenti che spazia da Velvet Underground a Otis Redding passando per Patti Smith. Un approccio lungimirante che predilige un senso di ‘musica incarnata’, ossia canzoni in grado di raccontare la vita del protagonista, a partiture strumentali più astratte.
LA SPIEGAZIONE DEL SIGNIFICATO DI PERFECT DAYS STA NEL CELEBRARE IL SENSO DI PRESENZA NEL QUOTIDIANO
Le attività quotidiane che scandiscono la vita di Hirayama sono inserite nella cornice di un minimalismo della storia. Pochi i dialoghi, nessun colpo di scena, pochissime variazioni nel ritmo narrativo. Una semplicità disarmante che è insieme ritorno all’essenziale e critica. Una critica serrata a un mondo accelerato e, forse, indirettamente, a un cinema mainstream schiavo del dinamismo. Con Wenders la velocità si dissolve, lasciando il posto a una quieta ripetizione.
Lanciando una provocazione potremmo sostenere che in questa sua ritualità Perfect Days può essere letto o come un film profondamente spirituale oppure come la storia di un uomo con disturbo ossessivo-compulsivo. È chiaro, però, come lo scopo del cineasta tedesco sia quello di restituire una prospettiva che esalta l’abitudine come rito, sacralizzando il quotidiano. Perfect Days non è infatti un film sulla monotonia dell’esistenza, di cui siamo tutti preda, ma sul modo in cui si decide di osservarla. Per vivere bene questa ciclicità inarrestabile e irrimediabile, Wenders rivolge lo sguardo alla spiritualità orientale fatta di silenzio e presenza.
PERFECT DAYS E LA CULTURA GIAPPONESE, TRA KOMOREBI E MONO NO AWARE
Le inquadrature rivolte alle fronde degli alberi da cui trapelano raggi di luce sono una costante in Perfect Days. Attimi di ogni giorno che Hirayama cattura rivolgendo la sua fotocamera analogica verso il cielo, senza però mediare lo sguardo con l’obiettivo. Cattura l’attimo, lo osserva in prima persona e china la testa con gratitudine. Le inquadrature di Wenders sono profondamente meditative, raccontando il “komorebi” – una parola che letteralmente descrive la luce del sole fra le foglie degli alberi. Un momento di pausa e contemplazione. E Wenders riesce bene a rendere l’idea sullo schermo, attivando nello spettatore la simulazione incorporata di quel respiro profondo che avvertiamo in Hirayama.
Se c’è un altro motto giapponese che si addice al protagonista, infatti, è il “mono no aware” (la partecipazione emotiva alle cose), che parte come concetto estetico e denota la sensibilità di chi osserva nel cogliere la bellezza fugace del mondo. Ed è proprio la caducità dell’attimo che invita a godere pienamente della bellezza. Quest’ultima accompagnata dalla triste consapevolezza della sua strutturale transitorietà.
I CONFINI TRA NATURA E PRESENZA UMANA IN PERFECT DAYS DI WIM WENDERS
Oltre la natura, Perfect Days è anche una contemplazione dello spazio antropico. I grattacieli di Tokyo e le inusualmente eleganti architetture dei bagni che Hirayama pulisce sono accolte da uno sguardo che ne esalta l’integrazione con lo sfondo naturale, restituendo una dialettica integrata fra spazio naturale e spazio antropizzato. Di fatto, il soggetto di Perfect Days trova le proprie origini in un lavoro finanziato a Wenders per documentare il progetto di riqualifica architettonica del quartiere di Shibuya, a Tokyo (The Tokyo Toilette).
Wenders non condanna lo spazio umano come colpevole dell’accelerazione della vita, ma lo riassorbe nel senso della bellezza passando dallo sguardo di Hirayama. Perché, ancora, ciò che conta non la cosa in sé, ma lo sguardo che osserva il mondo: è la prospettiva che abbruttisce o armonizza.
LA VITA DIVISA E L’ INTEPRETAZIONE DI KŌJI YAKUSHO IN PERFECT DAYS
A rendere Perfect Days un film straordinario non sono solo l’abile regia di Wenders e la sceneggiatura essenziale che firma con Takuma Takasaki, ma anche l’interpretazione maiuscola di Kōji Yakusho. L’attore conferisce ulteriore potenza performativa a Perfect Days, senza nulla da invidiare ai maestri del buddhismo.
Yakusho vive e rivive gioie e sofferenze del protagonista nelle pieghe del volto. Presente e passato, colori e bianco e nero, sorriso e tristezza, tutto questo arriva a condensarsi in un primo piano finale che da solo vale l’intero film e che restituisce la tridimensionalità del protagonista. Hirayama impersona bene l’integrazione fra i principi opposti che regolano la vita, ed è capace di farne prendere atto allo spettatore. Deve sposare la condizione di solitudine perché, come lui stesso confessa, vive in un mondo diverso. Lo sguardo e la percezione sulla realtà sono distanti da quelle degli altri, suggerendo una condizione di incomunicabilità.
In fondo, Perfect Days è un film che a livello di struttura o sviluppo potrebbe sembrare non avere grandi aspettative, ma che sa eccellere nella sua semplicità. Vuole raccontare la bellezza dell’ordinario e ci riesce, naturalmente e senza fronzoli. Wenders vuole offrire al pubblico un suo elogio della lentezza e Perfect Days è un film capace di esaltare la bellezza insita in una ritualità potenzialmente annichilente.