American Fiction è un film di genere dramedy scritto e diretto da Cord Jefferson, nominato agli Oscar 2024 in 5 categorie di peso e qui premiato per la miglior sceneggiatura non originale. Tratto dal romanzo Erasure di Percival Everett, American Fiction vede protagonista Jeffrey Wright (The Batman) ed è un affresco veritiero, seppure dai toni leggeri, sulle ipocrisie della cancel culture.
DI COSA PARLA AMERICAN FICTION? UNO SCRITTORE DI COLORE E IL MURO DELLA REALTÁ
Monk (Jeffrey Wiright) è un afro-americano, professore di letteratura universitario e autore affermato. Costretto a un anno di aspettativa per i suoi modi bruschi – che lo portano a irritarsi per l’eccessiva sensibilità politically correct dei suoi studenti – tornerà dalla sua famiglia di origine. Il rientro a Boston sarà costellato di problemi familiari, tra cui un fratello chirurgo cocainomane (Sterling K. Brown) e una madre con Alzheimer (Leslie Uggams). A questo, si assocerà una proposta di pubblicazione per un suo libro iper-stereotipato sugli afro-americani (quasi scritto a caso) e che Monk non vuole assolutamente mettere sul mercato per preservare la sua integrità professionale.
LA TRAPPOLA DELLO STEREOPTIPO IN AMERICAN FICTION
Il principale pregio di American Fiction sta nell’assoluto senso di leggerezza e irriverenza con cui tratta il tema della discriminazione culturale. Monk è un dissidente dalla visione culturale profonda, poco incline ai compromessi al ribasso. Tutto vorrebbe meno che pubblicare romanzi spazzatura, che piacciono al pubblico ma propongono una visione del mondo tutt’altro che complessa. La storia di American Fiction è, infatti, quella della lotta di Monk contro un sistema dell’editoria e della letteratura completamente assorbito dall’apparenza del mondo. Un sistema di produzione capitalistico che non mira a costruire cultura, ma a cedere alle esigenze effimere della maggioranza.
IL MURO DI REALTÀ IN AMERICAN FICTION
Jefferson costruisce lo script di American Fiction centrando l’asse del conflitto su Monk e sulla sua necessità di crescere. Quello che il protagonista deve imparare è a uscire fuori dalla posizione narcisistica e scendere a compromessi con la realtà, anche obbligandosi a fare ciò che non vorrebbe. L’aspirazione di Monk sarebbe scrivere un romanzo vero, analitico, profondo, non confermativo dei bias e degli stereotipi, ma la realtà gli imporrà di cedere alla pressione delle aspettative sociali nonostante i suoi strenui tentativi di resistere. American Fiction è un film triste proprio perché sposa questa tragica dicotomia tra aspirazioni e realtà, presentando un personaggio donchisciottesco.
IL GIOCO META-NARRATIVO DI CORD JEFFERSON
Se in American Fiction le performance degli attori sono eccelse, con specifico riferimento a Wright, altrettanto interessante è il gioco meta-narrativo e meta-finzionale messo in atto da Jefferson, seppure in maniera spesso saltuaria e posticcia. Mentre Monk scrive il suo orribile romanzo stereotipato, grezzo e ignorante (dal titolo “Pafology”, prima, e “Fuck”, dopo), i personaggi prendono vita durante la scena per incarnare la vivida immaginazione del protagonista. Ma, in fondo, questa è una tecnica che abbiamo visto più volte, partendo dallo splendido Stranger Than Fiction di Mark Forster, dove l’intreccio tra verità e rappresentazione era utilizzato in maniera più strutturale.
LA DENUNCIA APERTA DI AMERICAN FICTION
American Fiction è una denuncia aperta al romanzo americano e, soprattutto, alla difficoltà di sottrarsi alla pratica comune dello stereotipo. Una relazione quasi esiziale, quella fra realtà e finzione, in cui la seconda, attraverso le narrazioni, implementa e definisce la prima. Da questo loop il protagonista tenta di uscire per non alimentare una visione della popolazione afroamericana povera, ignorante, ghettizzata, violenta e triviale. Monk vuole assolvere al ruolo profetico e salvifico dell’intellettuale e costruire contro-narrazioni molto più stratificate che, certo, vendono di meno, ma con uno scopo ben più nobile: alfabetizzare sulla complessità.
Il film di Jefferson si scaglia senza mezzi termini contro le narrazioni semplicistiche, funzionali a confermare i luoghi comuni stabiliti dalla mentalità prevalente, e in tal senso può esser anche letto come un film sul cinema contemporaneo, dominato da un politicamente corretto sempre più inflazionato. Monk lotta contro questo sistema, ma perde necessariamente. Il destino che Jefferson – con la sua vena sarcastica – impone al suo protagonista è in ogni caso tragico, ma profondamente reale. Di quel realismo per cui gli ideali sono obbligati a inginocchiarsi all’ignorante e gretta realtà. Proprio come succede nel mercato mainstream della “american fiction”.